Appena
Non so voi: io sono di quelli che quando si trovano di fronte a una cosa detta o scritta bene si devono controllare per evitare di pensare che quella cosa sia vera (o giusta, o buona) per il solo fatto di essere espressa con precisione e cura ed eleganza. Mi capita leggendo questo libro o quell’articolo, c’è quella frase messa giù bene, né una parola di più né una di meno, l’aggettivo esatto, il suono giusto, insomma il gruppo perfetto di parole da prendere e ricopiare sulla Smemo (o, più prosaicamente e in modo più dignitosamente coerente con l’età, da evidenziare e tenere nei clippings del Kindle), buona da citare in un post o una chat di Whatsapp. Poi mi fermo e mi chiedo cosa sta intentendo chi scrive, perché va bene innamorarsi delle bugie ben dette ma c’è un limite a tutto.
Questo per dire che ieri leggevo il primo pezzo che Alessandro Baricco ha scritto per il Post, un articolo che inizia bene, che a metà del primo paragrafo ha questa frase esatta:
tutta la vita che non viviamo, per non rischiare di morire.
Parte bene, insomma. Ma poi va avanti con un concetto che ho sentito sostenere tante volte, per me troppe, e che più lo sento e meno mi convince. Il concetto è semplice, e provo a ripeterlo con parole mie: non possiamo/vogliamo più fare la vita “di prima”, e quella che conduciamo – fatta si direbbe di sole privazioni e rinunce: al contatto fisico, al godimento dell’arte e dello spettacolo, all’istruzione, al divertimento – non è vita, non è definibile come tale. Baricco, come altri bravi quanto lui nell’uso delle parole, questa cosa la dice bene al netto di una certa enfasi:
Completano questa grandiosa ritirata dal vivere facendo un uso massiccio e ipnotico di oggetti, i device digitali, che erano nati per moltiplicare l’esperienza e ora risultano utili a riassumerla in un ambiente igienizzato e sicuro. Per concludere: vivono appena.
Suona bene, no? Vivono appena, lo senti che è esatto. Appena: vedi alle volte come basta una parola, una sola. Perché quella parola è una porta, che ha dentro un ragionamento completo – messo giù bene anche quello: il talento o almeno il mestiere raramente tradiscono – che arriverà poco dopo. Ma quel che seguiva mi ha interessato un po’ meno, perché mi ero fermato alla premessa, a quella parola: appena. E se la premessa è sbagliata, ci siamo capiti.
E’ sbagliata, allora, quella premessa? E’ vero che viviamo appena? E’ vero che quel che ci ritroviamo per le mani è una vita svuotata, un simulacro di vita? Non so, non sono sicuro, ma credo di no: è vero? No. Il caso vuole che nella stessa giornata in cui leggo l’articolo di Baricco (sia chiaro: uno al quale da quasi trent’anni riconosco l’enorme merito di farmi pensare: con quali risultati poi, quella è un’altra storia che però non dipende da lui) finisco un libro e ne inizio un altro che parlano di come si viveva e soprattutto moriva nel ghetto di Lvov, nell’Ucraina del 1943. Ecco, vedi già la differenza di capacità: fammi invertire i verbi e vedi se non cambiano le cose: come si moriva e soprattutto viveva nel ghetto di Lvov. Perché si moriva: si moriva nei modi più atroci e in quantità spaventose. E quel che rimaneva era sofferenza, dolore, terrore, fame. Qualcosa che era non solo lontanissimo dall’esistenza condotta fino a qualche anno prima ma che era veramente difficile definire come vita, così svuotata a forza dalla gioia, dall’amore, dalla tranquillità. Fra i rimasti vivi ci fu chi non resse a quel vuoto: in una scena secca e tremenda c’è un gruppo di giovani donne alle quali i nazisti hanno appena sequestrato e ucciso i figli piccoli che salgono sul tetto di una casa e una alla volta si gettano di sotto, incapaci di concepire l’esistenza per un solo altro giorno. Ma moltissimi di coloro che ebbero la fortuna di restare in vita (fortuna, sì: lo disse di sé per decenni Primo Levi, essere uscito in piedi da Buna-Monowitz fu una questione di fortuna e non di merito, o almeno molto più della prima che del secondo) ci riuscirono facendo esattamente quello che le SS gli volevano impedire: vivere. Ogni singolo gesto, pieno di paura, di vergogna, di dolore fisico e psicologico, era un gesto di vita. Non c’è nessuna romanticheria nel dirlo: è una constatazione. Scavare un tunnel in un pavimento per trovare il modo di nascondersi nelle fogne della città, fuggire con i denti che battono dalla paura, passare giorni e settimane senza fiatare dietro un finto muro nel buio e al freddo: la puoi chiamare vita, questa? Stavano ben al di sotto della soglia dell’appena: eppure vivevano. Non perché continuavano a respirare, a battere inconsapevolmente le ciglia ogni due secondi, ad avere un cuore che pompava sangue a ogni battito. No: piuttosto perché volevano vivere e l’atto stesso di lottare per arrivare al giorno dopo era vita. Non quella che avrebbero voluto, certo: tutt’altro. Una vita di rinuncia, di privazione, di paura: suona familiare? Ma vita, sì, in tutto e per tutto: e piena.
Ho pensato allora a questo periodo, ai mesi trascorsi senza viaggiare, alle giornate passate in casa con il computer come porta sul mondo, ai miei vecchi in casa dei quali non entro da un anno, e mi sono chiesto se lo potevo definire vita, senza nessun appena a definirla. E mi sono detto che cazzo sì, che è vita: né più né meno di quella che vivevo prima. Diversa, altroché. Che mi piace molto di meno, senza dubbio. Ma che deve contare più quel che ci metto dentro io che quel che mi è stato tolto da fuori, e che se le parole devono essere esatte, allora sì, allora questa è vita, e farei bene a ricordarmelo.