Beau geste
C’è una cosa che mi ha colpito in tutta la manfrina di questi giorni su ci inginocchiamo – non ci inginocchiamo – dovete inginocchiarvi – lo facciamo se lo fanno loro e così via, ad libitum sfumando. Mi ha colpito che in tanti abbiano tirato fuori dal cassetto la storia di Peter Norman, il ragazzo australiano che salì sul podio dei 200 metri di Città del Messico tenendosi alle spalle John Carlos e Tommy Smith con il pugno guantato alzato verso il cielo in segno di protesta. Mi ha colpito perché per molti e molti anni quello di Norman fu considerato un non-gesto: chiunque guardò in televisione o fissò la fotografia di quella premiazione pensò che il gesto fosse quello dei due ragazzi americani. Erano loro che, ben consapevoli di ciò che li aspettava al ritorno in patria (ostracismo, perdita del lavoro, minacce personali e alla famiglia) sfidavano il mondo, o almeno quello nel quale gli era toccato in sorte di vivere. Lui, il biondino dall’espressione che non si capiva se spaesata o assente, era un comprimario buono per far risaltare il contrasto: pelle bianca e pelle nera, braccio abbassato e pugno alzato. Ci vollero decenni per sapere, soprattutto grazie allo sforzo di Matt, il nipote, che quel che parve un non-gesto fu invece, seppure in un contesto di casualità e inconsapevolezza che dovremmo tutti tenere in conto nel momento in cui lo citiamo e portiamo come esempio, una scelta di sostegno verso Smith, Carlos e tutti coloro che quei due ragazzi rappresentavano o volevano rappresentare. Ci vollero decenni per capire che il suo braccio era abbassato non per pavidità (anche se non possiamo sapere cosa avrebbe fatto se avesse saputo che la sua carriera sportiva stava finendo proprio in quel momento a causa di un distintivo che aveva comunque voluto mettersi al petto) ma per rispetto, perché sapeva – sentiva – che era giusto mettersi in disparte, stare un passo indietro. Fece un piccolo gesto con la naturalezza di chi non trova nulla di speciale in quel che sta facendo, e non fece un grande gesto con la lucidità di chi, almeno per un minuto della sua vita, sa dov’è e chi è: ma noi, un noi grande qualche centinaio di milioni di persone, questa cosa non la capimmo per molto, molto tempo. Ed è per questo che la sua storia, io credo, dovrebbe indurre a qualche maggiore cautela nei giudizi, una cautela da autoimporre a noi, noi spettatori che “gesto=buono, no gesto=cattivo” senza molte altre riflessioni, senza sapere un granché di chi stiamo osservando (una cosa che definirei il beneficio del dubbio, insomma; poi ci sono i balletti un po’ tristi dei comunicati/non-comunicati, dei “se lo fanno loro lo facciamo anche noi altrimenti boh” dove più che altro c’è in gioco un po’ di buon gusto). Non so se è quel che sto vedendo, e mi spiacerebbe se fossero necessari altri venti o trenta o quaranta anni per capire che quel che stiamo osservando sullo schermo, comodamente seduti sul nostro divano, non è proprio quel che sembra (o forse sì: è proprio quello il punto).