Killing fields
C’è questa mostra fotografica, al Mudec di Milano. Le immagini sono di Robert Capa, fotografo di guerra. Perché quello fece, quello fu praticamente per tutta la sua breve vita: guerra sino-giapponese, guerra di Spagna, Seconda Guerra Mondiale dalle battaglie nordafricane a quelle dell’avanzata alleata in Italia allo sbarco in Normandia alle macerie della Germania rasa al suolo; e l’Ucraina dopo il passaggio nazista e quello dell’Armata Rossa, la prima guerra fra Israele e i paesi arabi, e l’Indocina francese dove morì a quarant’anni saltando su una mina. Dicono che dopo l’esplosione teneva ancora la Contax II stretta nella mano sinistra. Una quantità di foto che hanno fatto la storia, dal miliziano spagnolo colpito alla testa al contadino siciliano che indica la direzione a un soldato americano, dalla corsa dei marines nell’acqua di Omaha Beach ai guerriglieri vietnamiti che sfilano indifferenti a fianco di un cadavere messo di traverso sul sentiero che stanno percorrendo. Non importa se alcune di queste immagini furono staged, costruite, messe in scena: non si rovina una buona storia con la verità, lo sappiamo da tanto tempo. E comunque, sono tutte immagini perfette, anche quelle tecnicamente sbagliate perché scattate in condizioni precarie, in fretta e con attrezzature non paragonabili a quelle odierne: in ognuna ci trovi qualcosa che viene da lontanissimo, dall’abisso nel quale siamo forse nati tutti, noi, i nostri padri, i padri dei nostri padri e così a risalire: lui per certo, ebreo ungherese fuggito dall’Europa antisemita nella quale gli era toccato nascere. Sarà che è un periodo un po’ così, la guerra che conosciamo tutti, quella che ho sfiorato andando due volte in Ucraina, non lo so: dalla mostra sono uscito sfinito senza aver fatto altro che camminare e ogni tanto commentare con mia moglie quel che avevamo davanti agli occhi. Mi sono aggrappato a una delle poche immagini serene di quell’interminabile carrellata di morte, quella di un gruppo di ragazzini cinesi ritratti dall’alto mentre giocano a palle di neve. Se ne vede uno che alza il volto verso il cielo, le braccia aperte come per abbracciare qualcuno che da quel cielo sta scendendo, gli occhi chiusi, il sorriso più gioioso che si possa immaginare: solo, nella sua bolla di felicità, che novant’anni dopo sembra di poter ancora toccare stando attenti a non romperla.