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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    13/06/2023

    Nulla da vedere

    Filed under: — JE6 @ 14:51

    Premo l’icona rossa che chiude la telefonata. Ho passato l’ultimo quarto d’ora a scambiare informazioni con il coordinatore di una missione umanitaria che sta per partire per l’Ucraina; gli ho raccontato della nuova procedura di uscita dalla Polonia, lui mi ha parlato dei programmi futuri – il ritorno a Kherson, la ricostruzione di un ospedale in una provincia limitrofa del Donbass, posti dove la guerra prende una consistenza del tutto diversa da quella delle regioni dell’ovest ucraino che abbiamo attraversato da nord a sud, luoghi dove ci sono i campi minati e cadono i missili e tutto è crivellato, devastato, sofferente.
    Di tutto questo non abbiamo visto nulla, perché nulla c’è da vedere: la guerra delle armi a Leopoli e sui Carpazi non è arrivata, se non nella forma sostanzialmente nascosta ai nostri occhi poco allenati e ai nostri piedi non autorizzati delle migliaia di feriti e mutilati che affollano gli ospedali non disponibili al fronte e delle molte altre migliaia di sfollati interni che all’ovest cercano sicurezza, casa e forse anche lavoro, tutte cose che là da dove sono scappati non sono più disponibili. Abbiamo visto – e alcuni di noi rivisto – una città che nel suo centro è più allegra e viva di molte delle nostre, dalla quale sono spariti la metà dei grandi generatori elettrici che qualche mese fa permettevano l’accensione delle luci e l’avvio delle macchine quando la stragegia russa era nella fase del “vi facciamo stare al freddo e al gelo”, un posto nel quale i pochi segni di guerra sono i sacchi di sabbia a protezione delle finestre dei seminterrati dei palazzi di una certa importanza e i blocchi di jersey all’ingresso di alcuni grandi viali di accesso al centro, cose che con un minimo di disattenzione potrebbero persino passare inosservate; nel nostro giorno e mezzo in Ucraina il solo brivido provato è stato l’alert di allarme aereo con richiesta di immediato riparo nei rifugi ricevuto mentre guidavamo in cima ai Carpazi, allarme rientrato dopo diciassette minuti – probabilmente quelli sufficienti alla contraerea di eliminare il pericolo.
    Mi sorprendo – e non è la prima volta – a fare i conti con qualcosa che non saprei come altro definire se non una specie di delusione che ricaccio sul fondo della mia cesta dei panni sporchi solo con un esercizio di razionalità. E’, questa sensazione, parente stretta di quella che un’amica descrisse bene dopo una serata passata in un centro di accoglienza per rifugiati: “è come se ci desse fastidio l’allegria di questi ragazzi, che hanno vent’anni e tutto il diritto di essere allegri anche se sono scappati da guerre e carestie, è come se per noi andassero bene solo quando sono piangenti, afflitti, emaciati; è come se pensassimo come si permettono di stare bene, non sarà che è tutta una presa in giro?”
    Mentre sto per rimettere il telefono nella tasca dei jeans arriva una notifica. Un messaggio, arriva da U., che dal suo paese in guerra è scappata prima per rientrare poi, che vive in una regione nella quale non si è mai combattuto, dove la morte ha preso la forma degli uomini coscritti e mandati al fronte ma non è arrivata nelle case dei civili, dove i campi possono ancora essere coltivati perché non sono stati riempiti di mine, dove i bambini vanno a scuola una settimana sì e una no perché le scuole sono state costruite in tempo di pace e le cantine non sono abbastanza grandi da accoglierli tutti quando suonano le sirene degli allarmi aerei. Mi chiede se sono rientrato, se è andato tutto bene. Le rispondo di sì e le chiedo di M. e V., i figli delle cui fotografie ho una grande cartella nel telefono; chissà come sono cresciuti dall’ultima volta che li ho visti di persona, le scrivo. Nell’italiano rugginoso dei traduttori online mi scrive “sono cresciuti non solo nel corpo, ma anche nella mente. I nostri figli sono stanchi della guerra, grazie alle restrizioni non c’è un’infanzia a tutti gli effetti”. Passano venti, trenta secondi e arriva un nuovo messaggio: “Ma siamo contenti di ogni giorno che viviamo, ora abbiamo valori completamente diversi nella vita”. Ripenso alla mia delusione, mi vergogno un po’ di me stesso e le scrivo di abbracciare i ragazzi da parte mia; poi, ritorno alla confusione del rientro e ai messaggi di lavoro che mi aspettano dalla settimana scorsa.

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