Il giusto, il nobile, l’utile
Melii – Ma è proprio qui la ragione della nostra fiducia! Noi confidiamo nel loro senso dell’utile: essi non vorranno tradire i Melii, loro coloni, e perdere, così, la fiducia dei Greci e fare un regalo ai nemici.
Ateniesi – E non pensate che l’utile si persegue evitando i pericoli, mentre il giusto e il nobile correndo dei rischi?Tucidide, “La guerra del Peloponneso – Dialogo tra Ateniesi e Melii”
Ho passato poco meno di quattro giorni a Trieste, a dare una mano agli operatori del Centro diurno di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo (e, già che ci sono, anche a una manciata di dropout indigeni). Non so dire se è un’esperienza che consiglierei a chiunque: ma a molti, certo per motivi diversi, sì. Comunque sia: accoglienza, integrazione, flussi migratori, rotta balcanica, sono argomenti dei quali mi interesso da anni (e quando posso cerco di fare qualcosa in prima persona) e ormai sono arrivato a un paio di conclusioni che butto qui come appunto personale.
La prima è che, in modo forse solo apparentemente paradossale, la gran parte delle attività che vanno sotto l’ombrello di soccorso, accoglienza e integrazione finiscono per rafforzare l’enorme e perverso meccanismo che ne genera il bisogno e le rende addirittura indispensabili. E’ come se ogni microscopica pezza che qualcuno prova a mettere – un paio di scarpe a chi è rimasto scalzo dopo un viaggio a piedi di seimila chilometri, un pasto caldo a chi non ha in tasca nemmeno cinquanta centesimi per una barretta, l’inoltro di un documento che forse (forse) permetterà a qualcuno di avere (temporanamente) un tetto sopra la testa – permettesse a qualcun altro di continuare a lavorare più o meno indisturbato per perpetuare e rafforzare un sistema che genera sofferenza, povertà, sfruttamento e morte spargendole a piene mani lungo percorsi che coprono mezzo mondo. Si può fare diversamente? Si può pensare di scardinare il sistema, di inceppare il meccanismo sottraendoglisi? Non lo so, se lo sapessi farei altro nella vita. Ma la sensazione di essere complice, a volte involontario e a volte consapevole seppure renitente, non riesco a tirarmela via dalla testa e dalle mani.
La seconda è che il solo modo di invertire la rotta seguita da quella che una volta si chiamava la pubblica opinione è cambiare completamente quello che nel mio mestiere si chiama il benefit, ciò che si riceve in cambio della propria azione – sia questa una donazione o un voto alle elezioni. Ho perso la speranza che sia possibile convincere qualcuno che convinto non lo sia già in nome dei valori, facendo leva sui concetti di azione buona e di azione giusta: se mai nella nostra società c’è stato un terreno comune sul quale potersi incontrare per motivi etici, quel terreno oggi non c’è più – o quanto meno io non riesco a vederlo. Parliamo di interesse, parliamo di soldi: non devi salvare un disgraziato dall’annegamento nel Mediterraneo o dall’assideramento in mezzo alle colline bosniache per pietà verso un essere umano, non devi dare un euro al governo turco per il mantenimento dei campi profughi o dei quartieri-ghetto dove si ammassano centinaia di migliaia di uomini e donne e bambini perché “è sbagliato”: quel che devi fare è ridurre al minimo quel lunghissimo processo fatto di guerre, fughe e dolori perché ti conviene, perché nel tuo paese mancano gli infermieri e gli operai, gli autisti e i panettieri e chiunque generi reddito legale in grado di generare contributi pensionistici dei quali godrai tu domani, perché l’euro che ti esce di tasca oggi ti ritornerà moltiplicato domani: e per l’eterogenesi dei fini, il tuo perseguire l’interesse personale produrrà salvezza, se non giustizia. Forse bisogna imparare ad accontentarsi, e al tempo stesso a circuire i nostri avversari.