“Vero?”
Sono le sette di sera, faccio i calcoli del fuso orario, penso che forse a quest’ora nel sudovest dell’Ucraina hanno finito di cenare – sempre che abbiano cenato nel senso che noi diamo al termine: “se si può, si mangia quando si ha fame: nel frigorifero si trova sempre qualcosa, a casa nostra”. Comunque, decido di scrivere a U.: le chiedo come sta, come stanno i ragazzi. Lei risponde: la scuola di V., le cure mediche per M., tutto come al solito. Mi chiede notizie delle mie “ragazze” e anche su questo fronte non c’è niente di nuovo: per fortuna, forse.
Quella dove vivono è sempre stata una zona tranquilla, per quanto lo si possa essere in un paese in guerra dove morte e distruzione non arrivano dai soldati nemici che accerchiano la tua città ma da missili lanciati ottocento chilometri più a sud, o a est. Le chiedo se ci sono problemi, che nella sintesi dei nostri scambi significa “più problemi del solito”, più paura, più rischio di richiamo dei mariti sotto le armi, più allarmi aerei. “La situazione è tesa perché non sappiamo cosa succedera domani, ma non ci arrendiamo. Tutto costa di più, ogni giorno. Lo affrontiamo”, mi risponde. Passa un minuto: “U. sta scrivendo”. Aspetto, fino a quando non appare il nuovo messaggio: “Tutto andrà bene. Vero?”. Ed è quell’ultima, piccola parola che mi stronca. Perché a milleottocento chilometri di distanza dal mio divano, una donna di quasi quarant’anni, forte, dagli occhi profondi e seri, che cresce due figli inventandosi un lavoro per sopperire a quello perso dal marito, chiede a me di rassicurarla, di dirle che sì, andrà tutto bene, che finirà tutto presto e lei, i suoi figli, le sue sorelle, torneranno alla loro vita di un tempo. Lo chiede come fanno i bambini, “vero mamma, vero papà?”. E come fa un genitore con un bambino piccolo, rispondo mentendo, sapendo di mentire perché l’ultima cosa che si deve togliere a un essere umano è la speranza: sì U., non ci sono dubbi, andrà tutto bene, e quando tutto sarà finito verremo a trovarvi, a mangiare dolci e bere vodka, a guardare i ragazzi e dire “come sono cresciuti”. “Vero?”