Srebrenica, 11 luglio
C’è un luogo dove mi fermo, prima di entrare nella cittadina che fu il vero centro operativo del genocidio. Potočari, con la fabbrica che fungeva da quartier generale dei caschi blu e i suoi spazi enormi e umidi che diventarono troppo piccoli per contenere le migliaia e migliaia di persone terrorizzate in fuga dalle truppe di Mladic, la distesa di stele bianche a coprire le colline come uno scialle di marmo, il piccolo chiosco che con una certa dignitosa sobrietà vende le spille con il fiore fatto di undici petali bianchi intorno al centro verde come il paradiso islamico e come le bare delle vittime, la fossa comune secondaria di Budak 1 di cui mi sono salvato le coordinate geografiche – un rettangolo di terra sulla quale pare che l’erba faccia fatica a crescere mentre tutto intorno è un rigogliare esemplare di piante da frutto.
Mi resta l’immagine di una donna velata che prega piangendo le lacrime di un dolore inesauribile, inginocchiata di fronte a due tombe. Il compagno la aspetta a qualche metro di distanza, custodendone la solitudine come se non volesse rompere con la propria presenza il cerchio intimo che lega la donna alle due colonne di marmo sulle quali, insieme ai nomi dei due morti, è inciso il meraviglioso versetto del Corano che recita “E non dire di quelli che sono morti sulla via di Allah: ‘sono morti’. No, sono vivi ma tu non li senti”. Li fisso restando in disparte provando l’irrazionale istinto di andare da quella donna e abbracciarla come se questo potesse servire, o avere un senso; quando si alza, l’uomo le si avvicina e le si accosta accompagnandola lungo il breve sentiero sterrato che divide un campo di tombe da un altro in direzione del grande ingresso del cimitero: io, invece, mi porto lentamente di fronte alle due tombe, leggo i due nomi e l’identico cognome – mi immagino due fratelli, uno di diciannove e l’altro di ventitré anni nel giorno in cui vennero massacrati, e una sorella che è morta quel giorno restando poi incollata al destino implacabile e spietato di chi rimane, sentendosi in colpa per il solo fatto di essere viva.
Uscendo dal cimitero mi torna in mente il luminoso giorno di dicembre in cui mi trovai insieme a un collega ad aspettare l’autobus che collega il campo di Auschwitz a quello di Birkenau. Scambiammo le quattro parole senza peso che si dicono per non restare completamente in silenzio quando si è in compagnia, anche se quella sarebbe l’unica cosa sensata e giusta da fare: tacere, deglutire e tenere dentro a forza quel che si è visto sapendo che si sta per incontrare qualcosa di ancora peggiore. Ci avvicinammo a Michele, la guida che ci accompagnava nella visita dei campi, l’uomo che un secondo prima di muovere il passo verso il cancello del campo, quello dell’Arbeit Macht Frei, ci aveva detto serio e quasi tagliente: “questa non è una gita, non è un’escursione; state entrando in un cimitero, comportatevi di conseguenza”. Gli chiedemmo da quanto tempo faceva quel mestiere, portare per tre ore abbondanti piccoli gruppi di persone a guardare con i propri occhi i luoghi del più grande sterminio organizzato che la storia ricordi. “Otto anni”, rispose, e a noi sembrò un’enormità, otto anni di crematori e camere di tortura e torrette e baracche e mucchi giganteschi di scarpe e capelli e valigie e uniformi a strisce e latrine: com’è questo lavoro, gli domandammo, senza riuscire né ad articolare meglio né tanto meno a immaginare la risposta; lui fece un sorriso mesto e consapevole: “non è il dentro, sono le domande che ti fai quando sei fuori”, disse con una voce tranquilla, e dentro si sentiva qualcosa che non era stanchezza o rassegnazione, era piuttosto la convinzione ostinata, costruita giorno dopo giorno e crematorio dopo crematorio, che devi provare a dare un senso a quello che fai per renderlo utile e buono e giusto per te e per gli altri. Poi arrivò l’autobus, Michele ci fece cenno di salire e noi ci muovemmo. Faceva freddo ma era una bella giornata di sole, come oggi a Potočari.