Dentro la circonvallazione
Era la fine dell’estate del 1987. Io stavo a metà dei miei presunti quattro anni di Bocconi ma ero ancora il tizio di periferia che aveva impiegato parecchio tempo ad abituarsi a quei suoi coetanei che si erano presentati al primo giorno di università in giacca blu, pantaloni grigi con la piega e ventiquattrore rigida. Uscì l’edizione europea di Time – era ancora un’epoca di carta – che sotto la testata portava un titolo semplicissimo: “Milano!”. Stava tutto in quel punto esclamativo, la foto della volta di Galleria Vittorio Emanuele e quella della sala contrattazioni della Borsa erano solo il contorno. Dentro quel punto esclamativo c’era la Milano che aveva un nome nel mondo, la Milano che cresceva e correva e risplendeva, la Milano da bere e quella da indossare. Non era la mia per il semplice motivo che io ero figlio di un’altra città, quella che stava oltre la circonvallazione, fatta di periferie chiamate dormitori, redditi sotto la media, sveglie all’alba e autobus che attraversavano confini invisibili ma non meno percepibili.
Non era la mia, quella città, e avrei potuto guardarla con l’astio del figlio illegittimo che non godrà mai dell’eredità familiare. Invece presi la rivista (credo che fossi abbonato, gli studenti godevano di condizioni di grande favore), la misi dentro una cornice molto semplice e l’attaccai al muro della mia camera. Non era la mia, quella città: e al tempo stesso lo era, più di quanto mi fossi mai reso conto, ed ero orgoglioso di lei, del suo splendore, della sua ricchezza in crescita, del suo saper stare sotto i riflettori facendosi invidiare dal resto del mondo. Poi sono cresciuto e maturato; pochi anni dopo preparando la tesi avrei toccato con mano l’implosione di una classe politica che riempiva il Palazzo delle Stelline vendendo garofani rossi a cinquemila lire e non spolverava più le scrivanie degli uffici affittati vicino alla Cattolica, pagai lo scotto di laurearmi non un minuto prima ma un minuto dopo l’inizio della crisi economica del 1991 e le cose andarono come vanno sempre per quasi tutti, a cicli, a salite e discese. Quella copertina rimase appesa al muro per molti anni e non escludo che lo sia ancora, nascosta in bella vista sotto gli occhi in una casa nella quale continuo a entrare tutti i giorni: rimase lì perché non avevo nessun motivo di toglierla o di chiedere ai miei di farlo, perché di quella città mi sentivo più parte di quanto non avvenisse quando avevo sedici o diciannove anni.
In questi giorni ho pensato spesso a quella copertina, a quel punto esclamativo, a come mi sentivo io guardandolo. E’ dal 2015 che siamo tornati a metterlo subito dopo il nome della nostra città e lo abbiamo fatto per molto tempo con quello strano orgoglio che ci porta a dire “noi” come si fa con le squadre di calcio – l’hai vinta forse tu la Champions? certo che no; eppure; vogliamo aggiungere il beneficio della sensazione di sentirsi più ricchi perché il valore del mattone acquistato a costi ancora praticabili cresceva di anno in anno e poi ti poteva pure capitare di diventare un proprietario vero, di quelli che può rivendere e ricomprare senza dover accendere un altro mutuo e anzi magari chiudendo il proprio perché ti cascava in mano il tre locali dei genitori arrivati ormai alla fine dei loro anni. Dentro quel luccicore ci siamo stati dentro in tanti, e a lungo con piacere e compiacimento: abbiamo visto che il meccanismo si stava ingrippando, ma non per noi, non per la maggioranza di noi che eravamo entrati nel perimetro della circonvallazione pur continuando a vivere a Molino Dorino o a Lorenteggio. Questo spiega tutto ciò di cui si sta parlando, spesso male, in questi giorni? No, certo, ci mancherebbe altro. Ma va tenuto in conto perché, come scriveva Musil, “non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno”.