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Dichiarazione d'intenti
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    31/10/2008

    Quando si dice che non è destino

    Filed under: — JE6 @ 10:04

    Nel 1968 avevo due anni, ed ero troppo piccolo per la politica e le manifestazioni e le barricate (peraltro, la famiglia era degnamente rappresentata dal mi’ babbo, carabiniere, che si passava le sue 14-16-18 ore al giorno su un camion a fare servizio di ordine pubblico).
    Nel 1977 avevo undici anni, ed ero ancora piccolo per la politica, le manifestazioni, le barricate e le P38. Avrei avuto i miei primi incontri con rossi e neri circa tre anni dopo, quando l’intero istituto omnicomprensivo nel quale studiavo si trovò ad assistere, ogni mattina da Dio mandata in terra, alle sprangate reciproche scambiate nel piazzale della fermata della metropolitana di Lampugnano.
    Oggi ho quarantadue anni e sarei abbastanza grande almeno per un corteo. Ma ho abbastanza beghe mie (il privato non è – non sempre – pubblico e politico) per non avere nè tempo nè voglia di seguire l’Onda. Fra cinque anni mi guarderò indietro e mi darò dell’idiota, o almeno lo spero.

    30/10/2008

    Aggiramento in due battute

    Filed under: — JE6 @ 20:38

    – Hai capito di chi ti sto parlando?
    – Mi sa di sì. Ma non te lo dico, che è meglio.

    29/10/2008

    Chiarificazione in due battute

    Filed under: — JE6 @ 11:34

    – Capisci?
    – No.
    [Continua, ovviamente; cambia solo l’interlocutore]

    Una giornata nel limbo

    Filed under: — JE6 @ 09:45

    Ci fermiamo davanti agli schermi della vecchia Malpensa, dove orami i viaggiatori in giacca e cravatta sono tanti quanti i vacanzieri otto-giorni-e-sette-notti. L’aereo per Parigi ha un’ora e mezza di ritardo. Primo caffè, acquisto quotidiani. Il tempo di leggere un paio di pagine, e le ore di ritardo diventano due. Occhi al cielo, disbrigo mail, quattro chiacchiere. Adesso il ritardo scende a un’ora e cinquanta. Vado in bagno, va bene ti aspetto. Due ore. Ci spostiamo agli imbarchi. Rilettura dei documenti per la riunione del pomeriggio, altre quattro chiacchiere. Due ore e venti. Noia, abbrutimento; non ci sono nemmeno aerei in pista da guardare come fanno i bambini. Imbarco. Due ore e quarantacinque. Volo. RER. Altre quattro chiacchiere, un paio di telefonate. La banlieu parigina, brutta, triste e grigia come sempre. Trenta euro per due hamburger e due birre. Due ore e mezza di riunione. Taxi, RER. Ora di punta. Zaini, sacchetti di plastica, corani tascabili, valigette. Andiamo subito agli imbarchi, sì sono stanco. Una birretta, magari. Due mail, due sms, grazie di tutto. Che ne pensi della riunione, poteva andare meglio. Mezz’ora di ritardo. Ancora. Sete. Atterraggio. Pioggia.

    27/10/2008

    Grazie (mille)

    Filed under: — JE6 @ 09:33

    Lo diciamo cento volte al giorno, all’edicolante che ci dà il resto, alla panettiera che ci allunga due francesini, al collega che ci offre il caffè, una decina di volte al ristorante lungo l’intero percorso di un pranzo (quando ci portano il menù, quando ci portano da bere, quando ci portano il primo, quando ci ritirano il piatto – e così via, grazie grazie grazie). Lo diciamo per buona educazione, per convenzione sociale e a volte per un bizzarro gusto di sorprendere con un’inattesa gentilezza chi sta semplicemente facendo il suo lavoro e non si aspetta di essere ringraziato per questo. Poi, siccome siamo quel che siamo – nervosi, scorbutici, presi solo e unicamente dai fatti nostri – non degniamo della minima attenzione quei piccoli segni di umanità che non si capisce se diamo per scontati o cos’altro: la moglie che ha allungato la strada per passare in tintoria al tuo posto, l’amico che ti scrive “wish you were here”, anche lo sconosciuto che ti mette un like su FriendFeed. Ogni giorno ci togliamo qualcosa, ed è qualcosa che non torna, che non ha ricompensa.

    26/10/2008

    Anestesia 2

    Filed under: — JE6 @ 16:37

    Ascoltavo Veltroni, ieri. Lo ascoltavo, e guardavo la gente, le bandiere, i colori.
    Mi sono ricordato che c’è stato un tempo nel quale mi pensavo di sinistra. Un tempo lontano. Nè bandiere rosse, nè eskimo – noi del ’66 eravamo fuori tempo per tutto – ma la sensazione che quella fosse la parte giusta, intrinsecamente giusta. E’ stato un periodo abbastanza breve. Mi guardavo intorno e mi pareva che “dall’altra parte” non tutto fosse brutto, sporco e cattivo. La curva di Laffer e la trickle down economy, che in Bocconi mi spiegavano per quello che erano, senza pregiudizi nè nell’uno nè nell’altro senso, mi risultavano delle rovinose idiozie; ma la Thatcher con i minatori e Reagan con i controllori di volo, e i 40.000 impiegati Fiat che marciavano a Torino – beh, saranno anche stati “dall’altra parte”, ma non era una parte sbagliata. Sì, a pensarci bene credo che sia stata proprio l’università, la famigerata Università Commerciale Luigi Bocconi in Milano a insegnarmi una certa libertà di pensiero. Da allora non sono mai stato più veramente, completamente “di sinistra”. Non so bene come spiegarlo, so che è stato così, e so che lo è anche adesso. Quando ho sentito Veltroni ripetere per due, tre, dieci volte “L’Italia è un paese migliore della destra che la governa” mi sono sentito prendere da uno sconforto profondo. Perchè delle due l’una: o ne è convinto, e allora ha gli occhi foderati di amianto, o non lo è – e quindi è un bugiardo. Non chiedetemi di dare definizioni di destra e sinistra: non sono in grado di farlo, non è il mio mestiere. So di non essere “migliore” di chi ha votato Berlusconi, e di non essere migliore di chi sta oggi nella stanza dei bottoni italiana. Ciò che c’è là fuori è anche merito e colpa mia, così come di chi era al Circo Massimo. La logica conclusione di questo discorso è che non sono nemmeno migliore di Veltroni, ed è una cosa della quale mi vergogno un po’.

    Anestesia 1

    Filed under: — JE6 @ 13:34

    Guardò fuori dalla finestra. Era una di quelle giornate di autunno nelle quali non si trovava altro che cielo azzurro fino alle montagne. Diede un’occhiata all’orologio, fece il conto del numero di ore passate in attesa, poi prese il palmare e guardò l’ora dell’ultimo messaggio inviato, che era anche l’ultimo in assoluto. Pensò che era l’ora di fare qualcosa. Pensò che era l’ora di farsi del male per stare meglio. Fece il giro delle stanze, e in ciascuna abbassò le tapparelle fino a portarle nel buio. Lasciò per ultima la cucina, dove aprì il frigorifero e prese la bottiglia della wodka comprata in un lontano duty-free polacco. Andò a sedersi sul divano. Allungò la mano, sapendo dove avrebbe trovato il palmare. Schiacciò un tasto, lo schermo mostrò una fotografia e quella fu la sola luce in tutta la casa. Bevve un sorso. Aprì la rubrica, andò alla lettera giusta, e fece pulizia.

    24/10/2008

    Tappe Forzate – 6

    Filed under: — JE6 @ 09:32

    Questa è una novella a puntate scritta a quattro mani.
    Le puntate precedenti le trovate qui

    6. Verso il mare

    [Lei]
    Facciamo una gara, dai: a chi dei due ci prova prima. Oppure facciamo che aspettiamo, aspettiamo, aspettiamo, finché non ci resta altro da fare se non provarci e vedere come va. Oppure facciamo come nei film, che dopo il gelato ai giardinetti ci troviamo subito a letto, e la risolviamo così.
    In ogni caso, facciamo che ti salto addosso io.
    Anzi no, facciamo che mi salti addosso tu.
    Oppure senti, facciamo questo gioco qui. Che a me brucia la faccia e ho freddo ai piedi, che tu fermi la macchina, ti fai vicino e mi baci. E io che ne so, mi accorgo che non riesco a respirare, prima ancora di capire se mi piace. Quando lo capisco è troppo tardi, ormai mi piace; mi piace come lo fai, mi piace come lo faccio con te. E allora io mi chiedo cosa dobbiamo fare, la solita anticamera prima di arrivare al dunque, alla ricerca di gradite varianti. Può essere subito, oppure facciamo che aspettiamo un po’, che ne dici. Facciamo che ti vengo addosso, non lo so, in modo maldestro, oppure facciamo che mi vieni addosso tu. Sai che c’è, me ne frego. Chiudo gli occhi e facciamo che ti tocco, prima o poi è una cosa da fare, si sa mai ci sia qualcosa da raccontare. Se proprio non ci arrivi, te lo faccio capire. Forse è un po’ insolito, ma non impossibile, che capiti così. Mi accorgo che ti manca il fiato e un po’ mi fai tenerezza. Sotto sotto, ci provo gusto. Forse te lo immagini, che sono un po’ stronza: chissà se ti piace. E ora a cosa tocca, quanto tempo è passato. Può essere troppo presto, può essere troppo tardi. Di sicuro c’è che mi guardi. Non lo capisco cosa pensi, ho le guance in fiamme, ho le cosce metà calde e metà fredde. Faccio in modo che mi tieni, ti chiedo la bocca con la bocca. Devi essere un po’ forte, sennò non c’è gusto. Sono qui che penso a cosa ti farebbe sbroccare, forse la parola scopare. Ho voglia di prenderti la mano e portarmela sotto, più sotto, facciamo che lo faccio. La sento che vorrebbe, la lascio fare. Facciamo che te lo domandi, se sono un po’ maiala. Respiro forte apposta, perché domani ci ripenserai, al momento in cui ho iniziato a godere.
    E poi facciamo che non ce lo ricordiamo com’è successo, facciamo che è successo e basta. Facciamo che c’ero io e la tua pelle, tu e la mia pelle. Facciamo che sono stata io, dai, che ti volevo sentire, che mi formicolava la testa, che mi girava il sangue là sotto, che sentivo più caldo e più ne volevo sentire, facciamo così. Così non avrai il senso di colpa, così che sia stata colpa mia, è così che gira. Ma anche se è così, mi devi prendere tu. Non te lo dico o forse sì, forse ti dico solo “dai”, e se non sei stupido lo sai. Il guaio è che è bello, che per un attimo sono solo io, che ti guardo da lontano. Il guaio è che è una porcata, e allora perché stiamo tanto a menarcela. Ti accarezzo la bocca, mi muovo da sola. O però mi devi tenere, sennò ti scappo via. O però mi devi baciare, che voglio qualcosa di umido. Facciamo che comandi tu, facciamo che comando io. Però la testa me la prendi con una mano, e allora sai che c’è, ho deciso che comandi tu, e così ti aspetto, ti aspetto. E se davvero lo devo dire c’è qualcosa di dolce, che mi fa sdilinquire. Io lo so cos’è, ma non mi va di fartelo capire.
    Ti respiro sulla bocca. Non ti lascio per così poco, ti tengo fermo. Voglio sentirti morire sulle mie labbra, voglio sentire che ti spegni qui, davanti a me.

    Sono ancora a cavalcioni, sono sempre io, quella di stamattina, quanto sono sporca, ti va di guardarmi da vicino, e i miei fianchi sembrano fatti apposta, è il tuo ultimo pensiero prima di

    Ti ho aspettato fino adesso, e ora che ci sei possono fartelo sentire, sono tua in braccio a te, ho la testa che mi scoppia, la tua mano sulla schiena, sei ancora tu, quello di stamattina, è il mio ultimo pensiero prima di

    Accosta la macchina, spegne il motore e sfila le chiavi dal cruscotto. Si volta verso di me e mi fa: “A cosa pensi?”.

    morire.

    [Lui]
    Sì, ha detto sì, ha detto andiamo al mare, sole, mano, mi ha preso la mano, musica alta, mi ha preso la mano, sono contenta, you shook me all night long, fermati da qualche parte, ma quando, adesso, perché, perché ti voglio, sex machine, ma qui in strada, che ne so, vuole scopare, ti prego fermati, sì mi fermo, heat of the moment, spiazzo, andiamo nel bosco, hai una coperta in macchina, ho una stuoina da spiaggia, va bene anche quella, vuole scopare, sei sicura, taci e prendimi, dio quanto è piena e soda, mi piaci da morire, non risponde, non le piaccio, vuole solo scopare, toccami, dimmi che ti piaccio, non parlare e continua, sì, è un bosco, gesucristo è un bosco, non si scopano le colleghe, dimmi che ti piaccio, sei figa figa figa, dimmelo ancora, chiudi quegli occhi, un’altra volta, vienimi sopra, sì, sì, ti è piaciuto, di solito sono gli uomini a chiederlo, ti è piaciuto, da morire, vuoi una sigaretta, non ti coprire, ho freddo adesso, fatti guardare ancora, prendiamoci una camera per la notte, non aver fretta, non provare a rispondere a quel telefono, stai tranquilla non lo faccio, sdraiati, perché, non fare domande e sdraiati, continua così, ti piace, continua così, ha dei capelli stupendi, quante te ne sei scopate in ufficio, dammi quella sigaretta, tu non fumi, dammi quella sigaretta, perché non parli, non lo so, non ti piaccio, vaffanculo, non ti piaccio, sei stupenda, perché non parli, sto fumando, tu non fumi, sto fumando, ti è piaciuto davvero, la vuoi prendere davvero quella camera, sì, andiamo allora, musica bassa, it’s a long way to the top, fermati un attimo, cosa c’è, fermati un attimo, ma perché, fermati un attimo, mi fermo, mi guarda, la guardo, si avvicina, mi bacia, mi stava scoppiando il cuore sai.

    Arriva il cameriere di questo ristorantino sulla spiaggia, uno dei pochi ancora aperti in questa stagione. Aspetta che gli diciamo qualcosa. Passano diversi secondi. Lei mi guarda e fa: “Ehi. A cosa pensi?”

    23/10/2008

    La forma fisica del pensiero

    Filed under: — JE6 @ 11:40

    Mi hanno fatto pensare a questa cosa: non scrivo nulla che non sia rivolto ad altre persone. Non ho il quaderno con il lucchetto, al quale accedo soltanto io. Le cose che scrivo per lavoro vogliono e devono essere lette da altri; le cose che scrivo qui – o in giro per social network – vogliono essere lette da altri. Sono scritte per questo scopo, perchè dall’altra parte del cavo ci sia qualcuno che spenda qualche minuto del suo tempo a leggerle, e talvolta a farle proprie – e sono scritte sapendo che di là c’è veramente qualcuno. Il corollario di tutto questo è che mi sono reso conto che i pensieri “miei” non prendono nessuna forma fisica, perchè è come se facendolo – uscendo dalla mia testa – non fossero più miei davvero. Mi chiedo se capita anche a voi.

    Living well

    Filed under: — JE6 @ 08:04

    Uscito dal ristorante, salutò la persona con cui aveva passato la serata e camminò per qualche minuto fino a raggiungere la macchina parcheggiata davanti ad un locale eritreo. Si sedette, lasciando la portiera aperta perchè faceva ancora molto caldo nonostante la stagione. Scrisse un messaggio, accese il motore e poi lo stereo. Si perse nel dedalo di vie di quella zona della città che frequentava troppo poco; mentre pensava alla strana giornata che aveva passato si trovò per caso su un lungo viale nella direzione giusta per tornare a casa e alzò il volume della musica. Passò davanti a bar, a phone center, a sexy shop, a stazioni, alzando sempre di più il volume. Mentre attendeva la luce verde di un semaforo girò gli occhi verso la macchina che gli stava a fianco, e vide una ragazza che come lui cantava e teneva il tempo battendo il pollice sul volante, e quando i loro sguardi si incrociarono entrambi si misero a ridere e fu come se fossero contenti di non essere gli unici svitati sull’intera circonvallazione e si fecero un cenno di saluto, un buona notte e buona fortuna chiunque tu sia. Si godette la lentezza e la velocità del percorso, le luci del fast food e delle stazioni di servizio, i filippini ed i peruviani alle fermate dell’autobus, had a dream, rock in usa, i will follow, perse la voce inseguendo un coro impossibile, presentò una band, si mise a ridere. Infilò la macchina nel box e rimase in silenzio, smaltendo il vino e il suono. Guardò il palmare, trovò una chiamata che non aveva sentito, shadows in the rain, living well, lesse il messaggio di chi lo aveva chiamato. Rispose, ci son cose che non ti posso dire, ti voglio bene. Scese dalla macchina.