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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    28/11/2011

    Greetings from Brussels ’11 – Heysel

    Filed under: — JE6 @ 14:23

    Scendo alla fermata di Bockstael, mi faccio indicare la strada per andare alle serre reali del parco di Laeken e mi incammino. Fa freddo. Le serre sono chiuse, mi dice il gendarme, riaprono ad aprile. Mercì, gli rispondo, e mi incammino verso il centro del parco, risalgo la collinetta, seguo i sentieri dimenticandomi che volevo ritornare sui miei passi per entrare al cimitero di Laeken, quello che sta vicino alla grande chiesa che mi sono tenuto sulla sinistra uscito dalla metropolitana. Guardo l’Atomium che riluce nel venticello che raffredda i sei gradi di questo strano novembre, continuo, scendo, mi sposto verso il Planetario, senza una logica ma come seguendo una calamita. Alla fine di Voetballaan lo vedo, con la ruggine che gli mangia l’impianto di illuminazione, soffocato da mille macchine parcheggiate negli spazi che la domenica sono usati dagli spettatori per comprare i biglietti. Mi avvicino, attacco gli occhi ai cancelli per vedere meglio quello spicchio di verde che so essere il campo di gioco. Il 29 maggio del 1985 ero a casa di Antonella per la sua festa di compleanno, lo ricordo come se fosse adesso, ricordo dove e come ero seduto, dove stava la torta e tutto il resto, ricordo che prima c’erano gli sfottò degli interisti e dei milanisti e poi lo stupore e poi il silenzio, sempre senza muoverci da dove eravamo seduti, con gli occhi fissi sullo schermo del televisore a guardare quel che succedeva dove mi trovo adesso, i muri che cadevano e gli ubriachi che correvano e la gente che piangeva. Oggi questo posto si chiama Koning Boudewijnstadion, ma per tutti noi è rimasto l’Heysel. Penso che volevo entrare a visitare un cimitero, e in qualche modo alla fine l’ho fatto lo stesso. E’ un sabato mattina, su Marathonlaan passa soltanto un netturbino al quale chiedo nel mio inesistente francese dov’è la fermata della metropolitana, lui me la indica, cerco in tasca le monete per comprare il biglietto.

    [Di solito scrivo i Greetings quasi in diretta, sul posto. Sabato non sono riuscito a farlo. Oggi non ho voglia di parlare con nessuno, e non so, immagino che sia stupido, ma mi pare di aver saldato un debito. Con l’Heysel, credo]

    25/11/2011

    Greetings from Brussels ’11 – Luci

    Filed under: — JE6 @ 09:45

    C’è un momento in cui il grande viale che separa il Palais Royale dal grande parco che porta al Parlamento rimane vuoto. Nessuno sui marciapiedi, niente macchine. Ci sono solo le luci dei fari di una Panda parcheggiata con il muso verso il parco, due cilindri di luce bianca che attraversano il selciato e sono l’unico segno di vita, il resto è foglie e aria fredda e suoni lontani che vengono dal centro. Dura poco, quel momento, dura il giusto per stare con le mani in tasca e le spalle appoggiate al marmo dell’entrata principale del parco ad aspettare, aspettare che la Panda si muova e un uomo passi veloce con una ventiquattrore che gli sfiora la stoffa dei pantaloni gonfiata dal vento.

    Greetings from Brussels ’11 – Grote Markt

    Filed under: — JE6 @ 09:22

    La Grand Place è piccola, una bomboniera che attraversi in un minuto, forse un minuto e mezzo. In realtà  impieghi sempre molto di più perché ti fermi a guardarla, le guglie e le finestre e le pendenze e le bandiere. Non riesci mai a fotografarla come vorresti perché è troppo alta e non hai mai il grandangolo che ti servirebbe. I valloni la chiamano Grand Place, non perché sia grande come dimensioni – non è che un pezzetto della piazza di Carpi – ma per la sua magnificenza. Ma a me piace il nome fiammingo, Grote Markt, che mi dà  quest’idea di centro, del posto dove la gente passa come attratta da una calamita e si trova e si fa un cenno di saluto con la testa e infatti gli unici alberi di Natale che ho visto stanno qui, uno enorme in mezzo alla piazza, illuminato dai giochi di luce delle Nuits de Electrabel e l’altro davanti a La Brouette – come si fa a casa, il salotto, il posto dove tutti passano e si fermano e si rilassano un po’.

    23/11/2011

    Enter title here

    Filed under: — JE6 @ 10:57

    Non ho ancora deciso cosa penso della prossima chiusura di Splinder, l’armadio dove stanno conservati i vestitini del primo anno di vita di questo blog. Forse che l’immagine dell’armadio non è quella più giusta, che gli archivi sono come gli album delle fotografie e che molto spesso a guardare come si era si muore dall’imbarazzo e che l’oblio è spesso ingiustamente sottovalutato, non so.

    20/11/2011

    Does everyone stare (bonus track)

    Filed under: — JE6 @ 17:32

    I due ragazzi camminano lungo il marciapiede, stringendosi dentro il piumino del primo inverno del nord. Arrivati alla pizzeria lui fa per entrare, ma si ferma d’improvviso come se si fosse ricordato in quel preciso istante di una cosa importante, e con un gesto goffo apre la porta e fa passare la ragazza. Si siedono a un tavolino d’angolo, mentre la sala si riempie lentamente di studenti come loro. Sono due matricole, ed è la prima volta che escono insieme. Ordinano da mangiare, lui prende una birra e lei un’acqua minerale. Parlano del più e del meno, della città da dove viene lei, del quartiere dove abita lui, dei corsi e degli esami che li aspettano. Quando hanno finito di mangiare restano seduti, lui con l’indice fa piccoli disegni sul bicchiere osservando lei che tira fuori dalla borsa una piccola agenda colorata e una penna e scrive veloce un appunto con una calligrafia minuta e decisa. Quando lei rialza la testa vede lo sguardo di lui e gli chiede cosa c’è. Lui risponde nulla, ti guardo e lei sorride un po’ sorpresa, gli chiede cosa e lui, sempre calmo, dice guardo te, e inizia a descrivere i piccoli gesti di lei, a volte prima di parlare abbassi la testa, come se ti guardassi dentro, come se stessi fermando il mondo per un secondo e prendessi fiato e mettessi tutto in ordine, e ti scosti i capelli dalla fronte sempre nello stesso modo, con il pollice e il medio della mano destra che partono dal centro della fronte e si allargano verso le tempie e quando lo fai hai un’espressione come per dire adesso sono pronta, adesso sono a posto, lui parla e lei lo ascolta e mentre lo fa pensa che da quando lo conosce non ha mai sentito la sua voce così a lungo, per forse due minuti di fila, e si rende conto che non saprebbe spiegare quella sensazione che la sta prendendo, di calore e di sorpresa, come davanti ai regali sotto l’albero di Natale, queste cose non le nota mai nessuno dice lei, come fai, anche in aula non stiamo mai vicini, e tu in biblioteca stai con i tuoi amici e io con i miei, non lo so, risponde lui, io ti guardo anche se non te ne accorgi, c’è qualcuno che ti guarda come ti guardo io? Lei non sa cosa dire ma lui la toglie dall’imbarazzo, tra venti minuti abbiamo lezione, ci conviene muoverci, lei dice sì e mentre fa il gesto di prendere i soldi dentro la borsa lui si alza e dice piantala, cosa fai, vado a pagare e lei lo guarda andare verso la cassa, lo guarda di spalle nella sua felpa degli Alabama Crimson Tide, di quel rosso che tende al porpora che le pare sia l’unico colore che lui dovrebbe portare, lo guarda fermarsi dietro a due ragazzi che devono pagare la loro pizza, mentre tira fuori il portafogli dalla tasca dei jeans.

    17/11/2011

    “Se dovete fare una scelta ascoltate, non applaudite”

    Filed under: — JE6 @ 15:08

    Ho appena finito di ascoltare Mario Monti che illustrava ai senatori le cosiddette linee programmatiche del suo governo. Mi sono piaciute molte cose e piaciute meno altre, ma nel tempo ho imparato che non si può aver tutto dalla vita, e quando hai abbastanza è già molto, molto meglio di niente. Comunque. Mario Monti è il presidente della Bocconi, e in questi giorni – soprattutto quando i nomi dei futuri ministri erano classificati alla voce “si dice -indiscrezioni” – si è fatta tanta ironia su questa università e sulle sue persone. Non sono mai stato animato da un particolare spirito di corpo, non venero l’Alma Mater come gli ex studenti di Harvard e di Stanford, non ho mai partecipato alle riunioni e alle iniziative degli alumni. Non mi ritengo sospettabile di pregiudizio positivo, insomma. Ma poco fa, seguendo l’andamento lento delle parole del nuovo PresDelCons, l’uomo che dice “se dovete fare una scelta ascoltate, non applaudite”, mi sono sentito a casa, un po’ come cittadino e un po’ – va bene, sparate pure – come bocconiano. L’anno scorso ho scritto questa cosa che riporto qui sotto, e che oggi ripesco. Poi, che io oggi (almeno per i prossimi venticinque minuti) mi senta orgoglioso e rasserenato e vaghissimamente fiducioso non lo considero un buon segno, ma un segno dei tempi – che sono quelli che sono: grami. Ma questo è un altro discorso.

    Era un giorno dell’autunno del 1985, quando entrai per davvero in Bocconi per la prima volta. Ci ero stato qualche tempo prima per il test di ammissione, ma quel giorno non contava, nessuno di noi aveva tempo e voglia di guardarsi intorno e di illudersi o deprimersi all’idea che superando quell’esame avremmo passato i successivi quattro o cinque o sei anni fra quelle mura. Ma il primo giorno vero, ecco. Non avevo ancora diciannove anni, venivo da un quartiere di periferia sconosciuto alla maggior parte dei milanesi (e la minor parte che lo conosceva lo considerava un dormitorio), non avevo fatto il liceo ma un normalissimo e plebeissimo istituto tecnico commerciale. Ricordo perfettamente che mi fermai di fronte all’entrata dell’università e pensai: “Oddio”. Sono sempre stato abbastanza bravo a mascherare la paura dei posti e delle persone nuove, e a fingere di non sentirmi inadeguato e fuori posto: così mi feci forza ed entrai come se niente fosse. Non ci sarebbero state cerimonie di iniziazione, atti di nonnismo e mortificazioni da scuola vittoriana, questo lo sapevo. Ma erano gli anni della Milano da bere, e non bastava la macchietta disegnata – male – da Sergio Vastano negli sketch di Drive In a prendere sufficientemente in giro quella terrificante armata di non ancora ventenni vestiti come i funzionari di Publitalia – blazer blu con bottoni dorati, pantaloni grigi e scarpe di cuoio inglese, la ventiquattrore rigida e una copia del Sole24Ore sotto l’ascella. Non ci volle moltissimo a rendermi conto che nel tempio dell’educazione capitalista italiana c’era un sacco di gente del tutto “normale”, gente che votava a sinistra – professori e studenti senza distinzione -, gente che usciva a fare due passi per mangiare un panino e tirare due colpi di cinque birilli nella Cooperativa Stella Alpina, gente con famiglie monoreddito, gente che potevi trovare da Buscemi a cercare qualcosa dei Clash. Non ci volle nemmeno moltissimo a rendersi conto che il censo fa differenza, talvolta per educazione, sempre per usi e costumi; lo sforzo più grande di quel primo anno fu non farsi travolgere né dai nomi altisonanti che potevi incontrare in biblioteca o al corso di sociologia di Nando dalla Chiesa né dal desiderio di assimilazione né dall’orgoglio proletario – e se ci riuscii, se ci riuscimmo tutti (o quasi) non fu tanto per merito nostro di giovani pivelli saltabeccanti tra la teoria della concorrenza perfetta e il calcolo degli integrali, bensì per merito di un sistema che ci trattava da pari, o almeno ce lo faceva credere. Avremmo avuto poi tutto il tempo del mondo – il resto della vita – per capire che le conoscenze contano quanto le capacità, che le barriere invisibili sono molto più difficili da superare di quelle ben indicate, e che l’erba del vicino – la vita degli altri, insomma – sembra sempre drammaticamente più verde e brillante: intanto potevamo tentare un tre sponde col taglio a tenere, e tornare a casa in metropolitana senza sentirci né degli eletti né dei paria, e oggi questo non mi sembra poco.

    13/11/2011

    Shadows in the rain

    Filed under: — JE6 @ 16:57

    Non ricordo di essere mai stato così stanco. Negli ultimi due giorni, da quando siamo partiti da Milano abbiamo dormito forse tre ore, e sempre sui pavimenti di vagoni di seconda classe. Oggi ci mancava solo questo, prendere l’ultimo treno della sera, apprendere con sgomento che non arriva al porto ma si ferma in città e realizzare che questo significa farsi qualche altro chilometro a piedi, e sempre con lo zaino in spalla, se vogliamo prendere il traghetto per Dover.
    Scendiamo dal treno. Siamo un gruppo che neanche nelle barzellette, noi due e due inglesi e due tedeschi, nessuno che sappia più di un paio di parole di francese. Fermiamo un poliziotto, a gesti gli chiediamo come si arriva al porto, a gesti lui ce lo spiega e noi facciamo finta di capire. Iniziamo a camminare, fa freddo e tira vento. Stiamo in fila indiana, noi due per ultimi. Mi sento addosso una tristezza che non dovrei avere, vorrei tornare a casa, vorrei sedermi qui, sul ciglio di uno di questi sentieri sabbiosi nei quali stiamo affondando i piedi. Cade qualche goccia d’acqua. I tedeschi non mollano, vanno avanti sicuri, come panzer, come la loro nazionale di calcio, un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro senza dire una parola. Gli inglesi seguono, ogni tanto ridono come fanno quelli che hanno due o tre birre nello stomaco. E poi ci siamo noi. Adesso piove davvero, ci fermiamo per tirare fuori dagli zaini le cerate, e cercandole dobbiamo spostare tutto – la tenda, le scarpe, le pentole, la canna da pesca, diocristo ti sei portato davvero la canna da pesca, i maglioni. Ripartiamo, ho le lenti degli occhiali ormai completamente bagnate, come un parabrezza senza tergicristalli, sento Paolo fischiettare per farsi compagnia, per far passare il tempo che invece non passa mai. Senza accorgermi entro dritto in una pozza di acqua e fango e petrolio e dio sa cos’altro ancora, d’altra parte siamo nei docks di un porto industriale, scivolo, barcollo, allargo le braccia per tenermi in equilibrio, sento che i venti chili che ho sulle spalle stanno per portarmi a faccia in giù, sembro una marionetta a cui abbiano tagliato i fili, e proprio mentre sto per cadere rovinosamente Paolo mi abbranca lo zaino, mi tiene, socio mi sembri un po’ stanco mi dice e io senza un motivo al mondo lo mando affanculo, lui che non c’entra niente. Riprendiamo a camminare in silenzio, i tedeschi e gli inglesi si sono allontanati, hanno un centinaio di metri di vantaggio, li vediamo là avanti, ombre nella pioggia di una notte del cazzo. Paolo mi si affianca e senza guardarmi dice la pioggia è bellissima, quando si gioca a calcio e diluvia è una roba fantastica, sei fradicio e non ci pensi, ti butti nel fango e ti sembra di stare in paradiso e io senza guardarlo mormoro è vero, e mi viene da ridere, e poi rido, rido e non mi fermo più, anzi mi tolgo gli occhiali e il cappuccio della cerata e cammino prendendomi tutta l’acqua del mondo che adesso arriva di traverso, mi entra negli occhi e nelle orecchie, e rido rido rido, poi dico a Paolo dai, riprendiamo i crucchi altrimenti qui ci ritrovano domani mattina e col cazzo che ci arriviamo a Dover e allungo il passo, e lui ride e dice coglione aspettami, ti salvo e mi ringrazi così.

    10/11/2011

    Bartali reloaded

    Filed under: — JE6 @ 20:57

    Il bello del trovare dieci minuti a fine giornata per leggere un po’ in giro cosa ne pensa la gente che conosci delle cose che capitano ê che trovi dei Bignami stupendi che ti spiegano in dieci-dodici frasi sintetiche e ben articolate perché tutto sia sbagliato e tutto sia quindi da rifare, un campionario di idee e posizioni magnifiche – davvero, non sto scherzando – cose che ti potrai spendere stasera con gli amici facendo la figura di quello che ne sa. Il brutto viene dopo, quando spegni il computer, ti metti su il giubbotto e mentre sei alla fermata del tram ti si insinua nel cervello il dubbio che il bello, quel bello del quale poco prima ti sei nutrito, ogni tanto faccia a pugni non dico col giusto, ma col realmente possibile. In quel momento provi una spiacevole sensazione, un fastidio persino fisico – perché, cazzo, qualche volta la si vorrebbe avere questa ricetta, e si vorrebbe essere convinti sul serio di saperla e poterla cucinare.

    07/11/2011

    “Che cazzo ne so, cose sue”

    Filed under: — JE6 @ 18:54

    Che ecco, insomma, sai la novità.

    06/11/2011

    Walking in Your Footsteps

    Filed under: — JE6 @ 17:07

    Stamattina sono in ritardo, però forse ce la faccio a entrare in classe prima che inizi inglese. In fondo al corridoio che porta alla palestra della scuola vedo Ilaria, sta parlando con Claudia e mentre si volta un po’ verso di lei mi vede con la coda dell’occhio, non mi saluta ma lo so che mi ha visto. Mi piace tanto Ilaria, ha un accento che non è di qui, i capelli neri e un modo tutto suo di portarseli indietro, che quando fa quel gesto sembra che le si schiarisca il viso e diventi ancora più bella. Mi piace tanto perché quando parliamo non sembriamo un ragazzo e una ragazza, ma solo due che si conoscono tanto bene e invece Ilaria si è trasferita da poco ed è nella mia classe solo da qualche mese. E poi è alta, Ilaria, e a me questo mi rilassa perché non mi sento in imbarazzo, io sono alto, alto e con i piedi lunghissimi, sono alto uno e novanta e ho il quarantotto e a volte sembro uno portato dal circo dentro una classe di terza ragioneria. Ma Ilaria è alta, non come me, ma abbastanza, e quando si tira i capelli indietro sembra che si avvicini al cielo. Ogni tanto andiamo a mangiare insieme quando finisce la scuola, e parliamo, ci raccontiamo un po’ delle nostre cose, lei mi dice del suo paese da dove è venuta via da poco perché il padre ha trovato qui il lavoro che aveva perso però non mi ha spiegato bene che lavoro fa e ho avuto l’impressione che si vergognasse un po’, io invece le faccio vedere dove vivo perché abito a cinque minuti a piedi dalla scuola, e il panettiere dove ci compriamo la pizza è quello dove siamo sempre andati a prendere il pane e infatti il panettiere quando mi vede arrivare con una ragazza fa finta di non conoscermi così bene ma quando ci torno da solo si mette a ridere e dice carina la tua amica. L’altro giorno stavamo andando verso i laboratori di lingua e Ilaria mi dice senti, ma i tuoi sono alti come te, perchè tu sei proprio una pertica, e guarda che piedi che hai, saranno il doppio dei miei, e io le ho risposto che no, mio padre e mia madre sono normalissimi, anzi mia mamma è più bassa che alta, allora lei ha detto e tu da dove sei venuto fuori allora, ma io non ho risposto e poi siamo entrati nell’aula-laboratorio. E’ che io non lo so da dove sono venuto fuori, papà e mamma qualche anno fa mi hanno fatto sedere e mi hanno fatto un discorso, neanche tanto lungo, per spiegarmi che ero stato adottato ma che io ero il loro figlio e non c’era molto altro da dire, mi volevano bene come se mi avessero fatto loro, non c’era un solo minuto in tutta la vita nel quale pensassero che chi gliel’aveva fatto fare e cose così e io ho continuato a pensare a loro come a mamma e papà, anche dopo quel giorno e quel discorso. Però poi sono cresciuto, sono cresciuto tanto, sono diventato alto come lo sono adesso e mi sono venuti questi piedi lunghissimi, e ci sono giorni che sono sdraiato a letto e mi guardo questi piedi da lontano e allora mi chiedo da dove vengo davvero, mi chiedo com’era mia madre e mi chiedo com’era mio padre, forse era come quello della canzone che papà ascolta spesso, dice che era un bell’uomo e veniva dal mare, magari era lui a essere alto alto. E ogni tanto faccio un sogno, è inverno e io sto camminando su una spiaggia, ho i piedi nudi e i jeans rimboccati sopra le caviglie, e davanti a me cammina un uomo grande e grosso, cammina veloce senza correre, né mi attende né scappa, io gli dico di aspettarmi ma lui va avanti ma è come se volesse farmi capire che se accelero il passo posso raggiungerlo, se alzo la testa vedo le sue spalle, se la abbasso vedo i miei piedi che entrano nelle impronte che lui lascia nella sabbia bagnata, ci entrano bene, significa che i suoi piedi sono più grandi dei miei, cammino proprio dentro le sue impronte e capisco che è papà, il mio papà e allora mi sveglio e ogni volta mi trovo la faccia bagnata e quando vado in bagno e me la asciugo mi dico che sono un cretino perché come fai a piangere perché senti la mancanza di qualcosa o di qualcuno che non conosci. L’altro giorno avrei voluto dire tutto questo a Ilaria, ma non c’era tempo e non sapevo come fare, che parole usare, allora non ho risposto alla sua domanda, lei è entrata nel laboratorio prima di me e ho alzato un po’ le spalle come per dire non importa e sono andato a sedermi vicino a Stefano come al solito. Però magari uno di questi giorni chiedo a Ilaria se le va di mangiare qualcosa prima di tornare a casa e le dico sai che ho fatto un sogno e le racconto di quel sogno lì e le dico che forse lo so perché sono così alto e ho i piedi così lunghi, che forse lo so da dove sono venuto fuori, che mi piacerebbe se lei mi aiutasse a trovarlo perché in due si cerca meglio, allora starò a guardarla mentre si tira indietro i capelli e aspetterò che mi risponda.