Fonzie reloaded
A volte – raramente, ormai: a invecchiare ci si irrita e ci si imbarazza più facilmente – guardo qualche decina di minuti di una qualche trasmissione nella quale c’è un qualche politico che risponde alle domande di un qualche giornalista. E se questo fa il minimo sindacale del suo lavoro, c’è quasi sempre un momento nel quale il politico di turno ha una manciata di secondi di debolezza: glielo leggi negli occhi, mentre sta recitando il suo copione fatto di sicurezza, assertività, indignazione, compostezza, empatia, affidabilità, è come se sopra la testa gli si disegnasse un fumetto in corsivo e a linea tratteggiata che dice “non farmi questo, non chiedermi queste cose, lo so che hai ragione, lo so che abbiamo fatto una cazzata, lo so che mi sto arrampicando sui vetri ma non lo posso dire, le regole sono queste, non lo posso dire e non lo dirò anche se ne avrei tanta voglia, anche se penso che ci guadagneremmo tutti, se non in voti in buona coscienza”. In quei momenti sembra di vedere Fonzie che prova a dire “ho sbagliato” e non ci riesce: però quelli erano degli happy days e noi ridevamo felici; e questi, invece, no.
[Poi ci sono quelli che quella manciata di secondi di debolezza non ce l’hanno proprio: e sono quelli che non fanno né pena né rabbia, ma solo paura. Di solito sono quelli che fanno la carriera vera]