< City Lights. Kerouac Street, San Francisco.
Siediti e leggi un libro

     

Home
Dichiarazione d'intenti
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

Talk to me: e-mail

  • Blogroll

  • Download


    "Greetings from"

    NEW!
    Scarica "My Own Private Milano"


    "On The Blog"

    "5 birilli"

    "Post sotto l'albero 2003"

    "Post sotto l'albero 2004"

    "Post sotto l'albero 2005"

    "Post sotto l'albero 2006"

    "Post sotto l'albero 2007"

    "Post sotto l'albero 2008"

    "Post sotto l'albero 2009"

    "Post sotto l'albero 2010"


    scarica Acrobat Reader

    NEW: versioni ebook e mobile!
    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione mobi"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione mobi"

    Un po' di Copyright Creative Commons License
    Scritti sotto tutela dalla Creative Commons License.

  • Archives:
  • Ultimi Post

  • Madeleine
  • Scommesse, vent’anni dopo
  • “State andando in un bel posto, credimi”
  • Like father like son
  • A ricevimento fattura
  • Gentilezza
  • Il giusto, il nobile, l’utile
  • Mi chiedevo
  • Sapone
  • Di isole e futuro
  • April 2024
    M T W T F S S
    1234567
    891011121314
    15161718192021
    22232425262728
    2930  

     

    Powered by

  • Meta:
  • concept by
    luca-vs-webdesign

     

    28/11/2008

    Tappe forzate – 7

    Filed under: — JE6 @ 12:28

    Questa è una novella a puntate scritta a quattro mani.
    Le puntate precedenti le trovate qui.

    7. Come un film in bianco e nero visto alla tv

    [Lui]
    Mi piace il mare in questa stagione. Mi piace che non ci sia quasi nessuno in giro, vedere sulla spiaggia pezzi di legno marcio e impronte di gabbiani, mi piace guardare i negozi chiusi e l’aria da sopravvissuti di quei pochi che hanno il coraggio di alzare le serrande, mi piace ascoltare il silenzio.
    In silenzio passiamo metà del pranzo, come se ognuno si stesse riprendendo da pensieri strani e faticosi, guardando fuori dalle vetrate di questo piccolo locale che mi sembra aperto più per pigrizia che per accogliere clienti. Non so cos’ha pensato lei, quando si è azzittita in macchina e non ha più spiccicato parola per una mezz’ora buona. So cos’ho pensato io, e tanto mi basta. L’altra metà del pranzo la passiamo parlando del più e del meno, rilassandoci per quanto ci è possibile. Lei mi prende in giro perché capisce benissimo che mi sto godendo il momento e al tempo stesso mi sento in colpa, e controllo la posta ogni trenta secondi, e dico tre volte che forse dovremmo risalire in macchina e andare dove il resto dell’azienda ci aspetta. Io la ascolto parlarmi della sua migliore amica, delle serate in palestra per combattere la cellulite, della collega freddolosa. Scopriamo di essere enormemente diversi e scopriamo che abbiamo un debole per lo stesso scrittore. Pago il conto, stai tranquilla lo metto in nota spese, e usciamo per fare due passi. Nel momento in cui ho l’impressione che stia per prendermi sotto braccio, le squilla il cellulare. Guarda il nome di chi chiama, risponde con un “ciao” strano, un misto di imbarazzo, calore e scocciatura. Si stacca un po’, io giro la testa, faccio finta di guardare prima il mare e poi le vetrine dall’altra parte della strada, cerco di capire chi è senza far vedere che sto ascoltando. Che sia un uomo è chiaro, chi sia non lo so. Decido di fare un paio di telefonate anch’io, cose di lavoro, più per tenermi occupato che per altro. La collega svedese, quelli delle P.R. di Milano. Alice continua a parlare al telefono. Sono così stupido che mi sento geloso, come se qualcuno stesse provando a rubarmela in queste ore ritagliate alla rigida pianificazione del tempo: sono così stupido che la sento mia, almeno per oggi, anche se solo sei ore fa era chiaro come il sole che non mi sopportava. Non so se parlava sul serio quando diceva “fermiamoci qui questa notte, al meeting possiamo andare domani mattina”. Adesso, mentre la guardo da una decina di metri di distanza mentre parla al telefono, vorrei solo accendere il motore, andare dove dovevamo andare e farla finita.

    [Lei]
    Il mare in questa stagione è di una tristezza infinita. Credo sia il panorama desolato, il fatto che in giro non c’è nessuno, il vento che soffia senza troppa decisione. C’è elettricità nell’aria, la posso sentire mentre passeggio con lui sul lungomare. C’è troppo silenzio. Si direbbe quasi che tra di noi c’è qualcosa, e che basterebbe poco per farsi avanti e coglierlo. Cosa, io non lo so. Come coglierlo, nemmeno. Soprattutto, non so se ne valga la pena. Forse mi va bene tenerlo così, forse è solo per adesso.
    Intanto camminiamo e non mi sono mai sentita così sospesa. E’ colpa dell’elettricità, sicuro. Per questo butto lì una frase che a ben vedere potrebbe risultare fuori luogo. Per questo accumulo cazzate su cazzate, lo prendo in giro, lo faccio sorridere. Perché mi sento come se potessi fare tutto, come se le possibilità fossero infinite, così come le promesse che mi sembra di leggere tra le righe. Un lungomare spoglio che aspetta solo l’estate. E, come al solito, mi riduco a inanellare una serie di stupidaggini.
    Forse il meglio di me l’ho già dato.
    Forse lui ha già dato il meglio di sé, e anche la situazione.
    E infatti, squilla il telefono. “A rapporto”, penso. E se c’è una cosa che non riesco a fare è mascherare l’imbarazzo. Mi allontano, parlo. Ritorno da lui. Avrei voglia di comprarmi un gelato per il solo piacere di sbrodolarmelo addosso.
    Ma così non si fa, Alice, si usa il tovagliolo.
    Sali in macchina, da brava.

    24/10/2008

    Tappe Forzate – 6

    Filed under: — JE6 @ 09:32

    Questa è una novella a puntate scritta a quattro mani.
    Le puntate precedenti le trovate qui

    6. Verso il mare

    [Lei]
    Facciamo una gara, dai: a chi dei due ci prova prima. Oppure facciamo che aspettiamo, aspettiamo, aspettiamo, finché non ci resta altro da fare se non provarci e vedere come va. Oppure facciamo come nei film, che dopo il gelato ai giardinetti ci troviamo subito a letto, e la risolviamo così.
    In ogni caso, facciamo che ti salto addosso io.
    Anzi no, facciamo che mi salti addosso tu.
    Oppure senti, facciamo questo gioco qui. Che a me brucia la faccia e ho freddo ai piedi, che tu fermi la macchina, ti fai vicino e mi baci. E io che ne so, mi accorgo che non riesco a respirare, prima ancora di capire se mi piace. Quando lo capisco è troppo tardi, ormai mi piace; mi piace come lo fai, mi piace come lo faccio con te. E allora io mi chiedo cosa dobbiamo fare, la solita anticamera prima di arrivare al dunque, alla ricerca di gradite varianti. Può essere subito, oppure facciamo che aspettiamo un po’, che ne dici. Facciamo che ti vengo addosso, non lo so, in modo maldestro, oppure facciamo che mi vieni addosso tu. Sai che c’è, me ne frego. Chiudo gli occhi e facciamo che ti tocco, prima o poi è una cosa da fare, si sa mai ci sia qualcosa da raccontare. Se proprio non ci arrivi, te lo faccio capire. Forse è un po’ insolito, ma non impossibile, che capiti così. Mi accorgo che ti manca il fiato e un po’ mi fai tenerezza. Sotto sotto, ci provo gusto. Forse te lo immagini, che sono un po’ stronza: chissà se ti piace. E ora a cosa tocca, quanto tempo è passato. Può essere troppo presto, può essere troppo tardi. Di sicuro c’è che mi guardi. Non lo capisco cosa pensi, ho le guance in fiamme, ho le cosce metà calde e metà fredde. Faccio in modo che mi tieni, ti chiedo la bocca con la bocca. Devi essere un po’ forte, sennò non c’è gusto. Sono qui che penso a cosa ti farebbe sbroccare, forse la parola scopare. Ho voglia di prenderti la mano e portarmela sotto, più sotto, facciamo che lo faccio. La sento che vorrebbe, la lascio fare. Facciamo che te lo domandi, se sono un po’ maiala. Respiro forte apposta, perché domani ci ripenserai, al momento in cui ho iniziato a godere.
    E poi facciamo che non ce lo ricordiamo com’è successo, facciamo che è successo e basta. Facciamo che c’ero io e la tua pelle, tu e la mia pelle. Facciamo che sono stata io, dai, che ti volevo sentire, che mi formicolava la testa, che mi girava il sangue là sotto, che sentivo più caldo e più ne volevo sentire, facciamo così. Così non avrai il senso di colpa, così che sia stata colpa mia, è così che gira. Ma anche se è così, mi devi prendere tu. Non te lo dico o forse sì, forse ti dico solo “dai”, e se non sei stupido lo sai. Il guaio è che è bello, che per un attimo sono solo io, che ti guardo da lontano. Il guaio è che è una porcata, e allora perché stiamo tanto a menarcela. Ti accarezzo la bocca, mi muovo da sola. O però mi devi tenere, sennò ti scappo via. O però mi devi baciare, che voglio qualcosa di umido. Facciamo che comandi tu, facciamo che comando io. Però la testa me la prendi con una mano, e allora sai che c’è, ho deciso che comandi tu, e così ti aspetto, ti aspetto. E se davvero lo devo dire c’è qualcosa di dolce, che mi fa sdilinquire. Io lo so cos’è, ma non mi va di fartelo capire.
    Ti respiro sulla bocca. Non ti lascio per così poco, ti tengo fermo. Voglio sentirti morire sulle mie labbra, voglio sentire che ti spegni qui, davanti a me.

    Sono ancora a cavalcioni, sono sempre io, quella di stamattina, quanto sono sporca, ti va di guardarmi da vicino, e i miei fianchi sembrano fatti apposta, è il tuo ultimo pensiero prima di

    Ti ho aspettato fino adesso, e ora che ci sei possono fartelo sentire, sono tua in braccio a te, ho la testa che mi scoppia, la tua mano sulla schiena, sei ancora tu, quello di stamattina, è il mio ultimo pensiero prima di

    Accosta la macchina, spegne il motore e sfila le chiavi dal cruscotto. Si volta verso di me e mi fa: “A cosa pensi?”.

    morire.

    [Lui]
    Sì, ha detto sì, ha detto andiamo al mare, sole, mano, mi ha preso la mano, musica alta, mi ha preso la mano, sono contenta, you shook me all night long, fermati da qualche parte, ma quando, adesso, perché, perché ti voglio, sex machine, ma qui in strada, che ne so, vuole scopare, ti prego fermati, sì mi fermo, heat of the moment, spiazzo, andiamo nel bosco, hai una coperta in macchina, ho una stuoina da spiaggia, va bene anche quella, vuole scopare, sei sicura, taci e prendimi, dio quanto è piena e soda, mi piaci da morire, non risponde, non le piaccio, vuole solo scopare, toccami, dimmi che ti piaccio, non parlare e continua, sì, è un bosco, gesucristo è un bosco, non si scopano le colleghe, dimmi che ti piaccio, sei figa figa figa, dimmelo ancora, chiudi quegli occhi, un’altra volta, vienimi sopra, sì, sì, ti è piaciuto, di solito sono gli uomini a chiederlo, ti è piaciuto, da morire, vuoi una sigaretta, non ti coprire, ho freddo adesso, fatti guardare ancora, prendiamoci una camera per la notte, non aver fretta, non provare a rispondere a quel telefono, stai tranquilla non lo faccio, sdraiati, perché, non fare domande e sdraiati, continua così, ti piace, continua così, ha dei capelli stupendi, quante te ne sei scopate in ufficio, dammi quella sigaretta, tu non fumi, dammi quella sigaretta, perché non parli, non lo so, non ti piaccio, vaffanculo, non ti piaccio, sei stupenda, perché non parli, sto fumando, tu non fumi, sto fumando, ti è piaciuto davvero, la vuoi prendere davvero quella camera, sì, andiamo allora, musica bassa, it’s a long way to the top, fermati un attimo, cosa c’è, fermati un attimo, ma perché, fermati un attimo, mi fermo, mi guarda, la guardo, si avvicina, mi bacia, mi stava scoppiando il cuore sai.

    Arriva il cameriere di questo ristorantino sulla spiaggia, uno dei pochi ancora aperti in questa stagione. Aspetta che gli diciamo qualcosa. Passano diversi secondi. Lei mi guarda e fa: “Ehi. A cosa pensi?”

    17/10/2008

    Tappe forzate – 5.

    Filed under: — JE6 @ 11:47

    Questa è una novella a puntate scritta a quattro mani.
    [La prima puntata, qui; la seconda, qui; la terza, qui; la quarta, qui]

    5. Un passo nel vuoto

    [Lei]
    Oh, beh, non sarà così tremendo fare una deviazione. Studiati la cartina, facciamo insieme un programmino. Abbiamo un paio d’ore. Sai, dopotutto non capita spesso. Voglio dire, a te magari sì. Ma a me no, di viaggiare. Le solite vacanze estive. Qualcosa a Natale. Le ferie d’ordinanza, quando tutto costa un casino. Quando sei all’università e le giornate durano un secolo non lo sai, che poi sarà così. Che il tempo di qualità sarà solo dalle sette di sera a mezzanotte, quando crollerai dalla stanchezza. Tu che università hai fatto? Ah, beh, ci avrei scommesso. Nel senso, lo immaginavo, dato il lavoro che… beh, sì, un po’ si vede, sono sincera. Con questo non intendo… insomma mi sono incartata. Diciamo che sembri alla mano, non come… No, non ti dico chi. Non posso. Mi trovo bene dove lavoro, è solo che… ma non parliamo dell’azienda. Hai visto lì? Certo che tento di sviare il discorso. Ti va di mangiare qualcosa? A me è venuta fame. Si, insomma, a Milano dove stai? Da solo? Scusa l’invadenza. Ah, ok, capito. Bella zona. In affitto? Non me ne parlare, guarda. A proposito, cioè non c’entra nulla, ma tu ce l’hai un account su Facebook?

    Razza di cretina. Lo hai sfinito di chiacchiere inutili. L’hai praticamente ucciso. Non parla più. Si limita a guidare. Almeno è sincero: lo annoio, e me lo dimostra. Perché deve essere così difficile? Rompere il ghiaccio, parlare. Non potremmo stare in viaggio insieme e guardare ognuno davanti a sé? Ognuno coi suoi pensieri, e quando ne abbiamo voglia scambiamo due chiacchiere. E’ carino, ha deciso da solo dove portarmi. Mi sembra una persona dolce, forse è stata un’impressione. Magari è uno stronzo. Magari ha qualche casino. Anche lui ha sviato certi discorsi. Dice che sta da solo. Ci sarà da credergli? Non posso indagare oltre, mi si è ammutolito. Quando decido che uno mi piace lo annego di parole, è un mio difetto. Ma poi non lo so se mi piace. Me lo squadro, e trovo qualche elemento fuori posto. Nell’insieme, mi prende bene. Mi sto toccando i capelli. Attenzione, può interpretarlo come un segnale, se si documenta su quelle orribili riviste per uomini. E chi se ne frega. Mi tocco i capelli. Decido di fare un passo. Lo faccio come posso.

    “sai che questa cosa che stiamo facendo mi prende proprio bene?”

    E piantala di toccarti i capelli. Sei proprio una cretina.

    [Lui]
    Tu guarda cosa può fare un incidente che blocca l’autostrada. Non dovrei stupirmi, perchè è quello che succede ogni volta che viaggio, quando ho abbastanza tempo per uscire dai giri obbligati da turista giapponese. Mi piace farlo, e non me ne pento mai. Uno scarto, una deviazione, una sorpresa. E’ bastato uscire al casello, guadagnare qualche ora di libertá avvisando la Bonetti che saremmo arrivati tardi, imboccare una strada secondaria, e Alice si è trasformata. Centocinquanta chilometri di monosillabi, e adesso non sta zitta un attimo. Domande e domande e domande: e io come uno scemo che le rispondo, abito a San Siro, sì ho fatto la Bocconi – ognuno ha i suoi difetti – no, non sono fidanzato. Mi chiedo chi me lo fa fare. Non che mi dispiaccia, ma mentre le dico di me non posso fare a meno di notare che lei non dice nulla di sè, e così alla fine so a malapena dove abita (giusto perchè sono andato a prenderla questa mattina; ah, pensa che gli affitti di Milano sono carissimi: ma tu guarda), che studi ha fatto, se sta con qualcuno o no.
    Non so come comportarmi. So parlare di fronte a centinaia di persone in una lingua non mia essendo brillante e accattivante, ma qui, nell’abitacolo della mia macchina, semplicemente non so cosa fare. Lei sembra nervosa ed eccitata. Io, invece, come mi capita ogni volta in situazioni come queste (ma quali? Come se passassi la vita a scarrozzare belle ragazze) cado in una specie di mutismo. Ma tu guarda che coglione è questo, starà pensando. E avrebbe anche ragione. Ma lei non c’entra. Vorrei liberarmi. Liberarmi di me stesso, da me stesso. Ma posso farlo con una che conosco da due ore? Non so nemmeno se mi va.
    In uno dei momenti di silenzio, mentre Alice guarda lo spettacolo di questa strada che taglia a metà una collina dell’Appennino, la osservo cercando di non farmi vedere. Si tocca i capelli. Sì, sembra un po’ sulle spine. Se fossi meno stupido e impaurito, le rivelerei che prima di partire ho fatto una piccola ricerca scoprendo che anche lei ha un account di Facebook, le farei un centinaio di domande sulle sue foto, le direi che sì, sono uno del marketing ma ci sono delle sere che passo scrivendo racconti, proverei a farle capire che sono quello che lei vede ma anche no. Invece taccio, mentre continua a toccarsi i capelli.
    Poi, se ne viene fuori con questa frase detta a mezza voce: “sai che questa cosa che stiamo facendo mi prende proprio bene?” Occazzo. Le prime parole “vere” da quando siamo partiti. E allora mi dico Stefano vaffanculo, provaci. Non con lei; provaci con te, stupido idiota. Mi si annoda lo stomaco, nei trenta eterni secondi che mi ci vogliono per prendere coraggio e risponderle: ma non glielo voglio far vedere, non mi voglio mostrare più ridicolo di quanto già sono e di quanto sarò tra poco: ridicolo all’ennesima potenza.
    Tengo lo sguardo fisso oltre il volante. Una curva, un breve rettilineo, la strada che scollina.
    “Ti va di andare al mare?”

    03/10/2008

    Tappe forzate – 4.

    Filed under: — JE6 @ 11:01

    Questa è una novella a puntate scritta a quattro mani.
    [La prima puntata, qui; la seconda, qui; la terza, qui]

    4. Deviazione obbligatoria

    [Lui]
    Se volevo sorprenderla, ci sono riuscito benissimo. Prima parte facendo la sostenuta, quella che ce l’ha solo lei, quella giovane, bella e maledetta – le occhiaie e il mal di testa come medaglie al valor del mojito. Adesso invece. Deve essersi presa paura, non so. Ha appoggiato il (bel) culo sul sedile ed ha impostato un sorriso tirato, fintamente cordiale, un bel pinzimonio di “questo è pazzo” e “adesso come faccio a tenerlo buono e a distanza”. Fossi il prototipo del bello e bastardo, mi sarei divertito un sacco.
    Invece non lo sono. Né bello né bastardo. Non so come comportarmi: questa donna mi fa incazzare, ma al tempo stesso mi piace, non solo fisicamente; e io, ecco, le vorrei piacere. Per fare cosa non lo so. Mi vergogno persino a pensarlo, tu guarda quanto sono scemo.
    Ci avviciniamo a Piacenza. Butto lì qualche frase un po’ a caso, un po’ per il gusto infantile di non far dormire Alice nel caso volesse farlo, un po’ perché non mi sembra educato essere un cattivo ospite – anche se lei continua a stare sulle sue. Da quanto tempo lavori in azienda, conosci quello, hai sentito di quell’altra. Risultato: un mortorio. Andare al Monumentale e farsi un soliloquio potrebbe essere più eccitante.
    Decido di mettermi il cuore in pace, e di provare a fare come se stessi viaggiando per conto mio, come se lei non ci fosse. In fondo, non vorrebbe esserci: e fra quattro o cinque ore ci saluteremo, nella speranza che lei riesca a trovare una soluzione alternativa per il ritorno così da non doverci sopportare ancora tra due giorni. Così sposto la radio su Virgin, dove non parlano e non passano i Tiromancino. E tu guarda, ma dopo pochi minuti, durante i quali siamo rimasti sempre in silenzio ognuno perso dentro ai cazzi suoi, passano The Great Gig In The Sky. In quel momento mi ritrovo da solo, e finalmente, dopo ore, mi sento bene. Bene davvero. Non so che espressione mi si disegna in faccia, se socchiudo gli occhi, se sorrido, se canticchio a bassissima voce; so che involontariamente mi adeguo alla musica, rallento un po’ e passo sulla corsia di destra, come se questo potesse far durare di più il primo istante sereno da troppo tempo a questa parte.
    Mentre la musica sfuma mi pare di sentire la voce di Alice. Una voce profonda, che ha apparentemente poco a che fare con il suo volto. E però in questo momento ha un tono strano, quasi timido. Mi scuoto dal torpore, volto la testa e la sento chiedermi “Ehi. Tutto bene?”. Sembra un po’ imbarazzata. Un po’ lo sono anch’io, devo dire. “Tutto bene, sì. Perché?” le rispondo. Lei fa un mezzo sorriso che non riesco a interpretare. Torniamo a guardare dritti davanti a noi, ciascuno intento a immaginarsi cosa sta pensando l’altro. Fino a quando uno dei pannelli della società Autostrade ci avvisa che un incidente blocca l’autostrada all’altezza di Parma, dove saremo costretti a uscire. E in quel momento, pensiamo entrambi la stessa cosa: “Merda: e adesso?”.

    [Lei]
    “che cos’è?”
    “una deviazione”
    “perché?”
    “c’è scritto lì”
    “ah”.

    “e adesso?”
    “dobbiamo uscire”
    “ci perderemo”
    “ho il navigatore”
    “ah, già”.

    “un pezzo di statale?”
    “direi di sì”
    “quanti chilometri?”
    “un bel po’ ”
    “arriveremo in ritardo”
    “è probabile”

    “sarà il caso di avvisare”
    “avvisi tu?”
    “non saprei chi avvisare”
    “avvisa la collega che ha organizzato”
    “e chi è?”
    “la Bonetti”
    “non la conosco”
    “da chi hai avuto la comunicazione?”
    “non ricordo”
    “chiama la Bonetti”
    “non ho il numero”
    “scrivo io – passami il BlackBerry -”

    “la vedo lunga”
    “anche io”
    “e allora tanto vale”
    “tanto vale cosa?”
    “mh” (spallucce)

    “la conosci la teoria delle code?”
    “no”
    “è roba di statistica”
    “in pratica?”
    “se restiamo qui in coda siamo dei pirla”
    “ovvero?”
    “andiamo a fare un giro”
    “e dove?”
    “gira qui”
    “obbedisco”
    “bravo”

    “bene, e ora dove vado?”
    “ah non so, chiediamo”
    “chiediamo cosa?”
    “un posto da vedere”

    Dimmelo tu se non è vero, che su cento uomini che conosci uno solo riesce a farti una sorpresa. Dico sorpresa non come fosse un regalo, ma solo un attimo, in cui lo guardi e vedi qualcosa che ti pare familiare. Un lampo che non ti aspetti: il ricordo di un momento, o forse un gesto che hai desiderato, oppure un particolare che ritorna spesso nei tuoi sogni della sera. Dimmelo tu se non è vero, tu che una volta mi hai fatto quel tipo di sorpresa. E se non lo vuoi dire tu allora te lo dico io, che invece stavolta un’altra sorpresa c’è stata, in questo paese che non so dove sia, quando lui si è allontanato un secondo dopo essere sceso dalla macchina. Ti dico solo che è stato in quel momento, quello in cui non pensava lo guardassi, in cui ha sorriso tra sé e sé allargando un po’ le braccia, come per arrendersi, come per difendersi. E’ stato allora che ho visto lui.
    Te lo dico io ora che non è vero, perché che su cento uomini che conosci ce ne sono almeno due che ti fanno una sorpresa.

    E adesso vado e lo prendo con me.

    26/09/2008

    Tappe forzate – 3.

    Filed under: — JE6 @ 16:02

    Questa è una novella a puntate scritta a quattro mani.
    [La prima puntata, qui; la seconda, qui]

    3. L’abito non fa il monaco

    [Lui]
    Beh, c’è da morire dal ridere. Come l’ho toccata sulla coscia, giusto con la punta dell’indice come si fa per svegliare qualcuno, la pischella si è tirata su che neanche si fosse trovata una tarantola ci siamo capiti dove. Ehi tesoro, stai serena: voglio solo offrirti un caffè, non ho intenzione di metterti le mani addosso. Magari per darti due sberle, visto che fai la figa scontrosa e incazzata con il mondo, collega incluso. Ma poi non sarei capace, che non so litigare con la gente e se mando a fare in culo qualcuno mi vergogno di me stesso e mi viene pure da chiedergli scusa.
    Comunque.
    Entriamo nell’autogrill. La ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e seven up; ma tu che ne sai, Cristo, di una canzone così, capace che ti piacciono i Negramaro e aspetta, com’è che si chiamano quegli altri morti di sonno, i Tiromancino. Oddio, sí. Mi sa proprio che sei quel tipo, happy hour e Tiromancino. Ah ah ah.
    Questo pensiero mi mette di buonumore. Mi passa proprio il nervoso che mi avevi fatto venire; volevi farmi sentire un insopportabile, vecchio, noioso sfigato. Un insignificante portatore di giacca e cravatta. E lo sai? Ci stavi quasi riuscendo. Ma ognuno ha la sua polvere sotto il tappeto, Alice. Happy hour e Tiromancino. Ah ah ah.
    Vado in bagno per lavarmi le mani. Mi guardo nello specchio; tutto sommato faccio la mia figura, però mi tocca ammettere che se pensavi quel che credo, una ragione o due ce le avevi. Portatore neanche tanto sano di giacca e cravatta. Vaffanculo, Alice. Vaffanculo tu e i tuoi happy hour e i tuoi Tiromancino. Mi tolgo la giacca. Mi sfilo la cravatta. Slaccio il bottone del collo della camicia. Rimbocco le maniche, come mi ha insegnato anni fa quel commesso gay a Riccione – piega a metà, poi a metà ancora e lascia fuori il polsino. Mi riguardo. Sembro il Baricco dei tempi belli, anche se lui non aveva quel microtatuaggio all’interno dell’avambraccio “Police on my back”, fatto quando avevo la fissa per i Clash.
    Torno nella sala, mi dirigo verso il bancone dove la signorina-aperitivo mi sta aspettando. Le sorrido radioso, falso come solo noi del marketing possiamo essere, appoggio i gomiti sul banco, le chiedo cosa vuole e ordino il suo cappuccio e brioche. E una birra media, grazie signora. Sono le otto e un quarto del mattino. Ma lei non sa che ho fatto colazione più di due ore fa, e me lo posso permettere. Mi guarda come se fossi un alieno. Si sta chiedendo se quello che si sta scolando una Heineken è il gemello del fossile che è venuto a prenderla sotto casa, mi sa.
    Sono io, Alice. Sono proprio io. E sai cosa? Ce la possiamo prendere comoda, con ‘sto viaggio. Adesso voglio provare a capire chi sei tu.

    [Lei]
    Bello arzillo se ne va verso il bagno, questo tipo strano, e bello arzillo se ne esce.
    Si è fatto la toeletta a quanto pare, ha i capelli un po’ bagnati. Io per me mi butterei sotto la doccia. Io per me farei l’autostop per tornare a casa. Io per me eviterei di guardarlo con un pizzico di compassione, come sto facendo ora, mentre lui cammina verso di me. Non sono superiore, no, figuriamoci. Ho solo i cavoli miei, ho solo un po’ di cose da sistemare, ma sono sicura di riuscire, solo che mi serve tempo, e questo week end buttato nel cesso coi colleghi non aiuta, ho solo bisogno di riposarmi un po’, ho solo… tanto sonno.
    Fisso il cartello con l’elenco della caffetteria, e quando alzo lo sguardo me lo trovo di fianco, sorridente, piacione, che mi chiede cosa voglio. Ora, io non so che caspita gli passi per la testa a questo qui, nel momento in cui ordina una birra per sé e un cappuccino per me. Io non so cosa pensare. Forse vuole impressionarmi – e in tal caso mai gli darei soddisfazione – , forse non sa che pesci pigliare e si butta sull’alcol, forse è solo un alcolizzato, forse è originario della Baviera. Spero solo che non mi aliti in faccia, perché potrei vomitare. E allora sì che faremmo un bel duo. Alla Beavis and Butthead, per capirci.
    Insomma si beve la sua birretta mentre io lo osservo. Ha una scritta sul braccio, questo tizio. Colgo solo la parola “back”. Il resto non riesco a leggerlo. Sarà mica una volgarità? Una frase sul sedere di qualcuno, o su quanto è bello il sedere. No aspetta, che cosa sto dicendo, sedere si dice “bottom”. Ma forse anche “back”. Boh.
    La sua birra sembra eterna. O forse è lui che la fa durare più del dovuto. Vorrei essere fuori di qui, vorrei essere già in macchina. Vorrei anzi essere già a destinazione, vorrei separarmi da lui. Non voglio essere costretta a passarci del tempo. Vorrei viaggiare in compagnia di una persona sobria, se possibile. Vorrei che non facesse lo stronzo e non mettesse a repentaglio la mia sicurezza. Fanculo, razza di stordito, se proprio devi, ubriacati a casa tua. Non dico nulla, ma invio un messaggio al mio migliore amico salutandolo per l’ultima volta.
    Ci avviamo verso l’uscita. Mi giro e gli chiedo sorridendo se ce la fa a guidare. Mi apre la porta, e sotto gli occhi mi passa di nuovo quella scritta. Non riesco a leggere. Lui mi sorride e mi fa un buffetto sulla guancia (è ufficiale: questo qui tocca). Mi guarda come si guarda una bambina piccola: “Tranquilla”.
    Sono nervosa.

    12/09/2008

    Tappe forzate – 2.

    Filed under: — JE6 @ 09:35

    Questa è una novella a puntate scritta a quattro mani.
    [La prima puntata, qui]

    2. Pausa caffè

    [Lui]
    Mah. Non che mi aspettassi frizzi e lazzi, intendiamoci. Non posso dire che questa tipa sia stata scortese: ciao, piacere, un sorriso di circostanza, ma tu guarda che orario. D’altra parte, non ci conosciamo: qualcuno ci ha costretti a passare insieme qualche ora di viaggio, e almeno stessimo andando a divertirci, ma lasciamo stare che se ci penso ancora a questo cazzo di kick-off meeting mi si alza la pressione e magari alla mia età ci dovrei stare attento.
    Comunque, il fatto è che – almeno per cortesia, non dico per simpatia – uno si aspetta di riuscire a scambiare quattro parole, in fondo siamo colleghi anche se non ci siamo mai conosciuti prima di una mezz’ora fa. Invece, ho fatto in tempo a uscire dal dannato dedalo di sensi unici in mezzo al quale si trova casa sua: ho buttato la coda dell’occhio verso il sedile del passeggero e prima ho visto la classica espressione di chi pensa “Cristo, ma perché sono qui”, e poi – metti trenta o quaranta secondi dopo – gli occhi addirittura chiusi.
    Non credo che dorma davvero, però. Non so, è una sensazione. Io ho un po’ la fissa di saper capire le persone, cosa gli gira per la testa. Beh, io credo che questa Alice mi odi. Non le ho fatto nulla, ma mi sa che odia quel che rappresento: cosa, non l’ho ancora ben capito: l’azienda, il lavoro? La mezza età? Tutto l’insieme? Devo essere il prototipo della persona con la quale non passerebbe trenta secondi se non sotto minaccia. Quando si dice la fortuna, insomma.
    A me non dispiace guidare, e tantomeno farlo in silenzio. Tante volte mi metto in autostrada, e dopo dieci minuti spengo la radio e non faccio altro che godermi una striscia di asfalto e il vuoto dentro la testa. Quindi, a ben vedere questa situazione non dovrebbe darmi fastidio. E invece. Voglio dire, fosse un’amica si sarebbe inventata una scusa per appoggiare la testa al finestrino (per inciso, ha veramente dei bei capelli, lunghi, mossi), una cosa tipo “scusami, non sono stata tanto bene stanotte, ti dispiace se chiudo gli occhi per qualche minuto?”, una di quelle frasi alle quali non puoi rispondere di no e magari non ti dispiace nemmeno farlo “ma va, figurati, dormi pure che io ascolto un po’ di musica”. Qui, però, le cose stanno diversamente. Non è proprio da me, ma mi fa incazzare. Che cazzo si aspettava? Voleva il figone palestrato che la sdraiasse alla prima area di sosta? Voleva lo sfigato meno-che-normodotato da prendere per il culo senza nemmeno nascondersi troppo? Voleva il vetero-sindacalista pronto a sputare veleno sullo sfruttamento dei lavoratori subito dopo il “ciao, io sono Stefano?”. Beh, bella mia, mi dispiace. Sei cascata male. Anzi, no: non mi dispiace per niente. Non sono così, punto. Ma forse a te non te ne frega un cazzo.
    Vabbeh, me ne farò una ragione. E adesso, avrei proprio voglia di un caffè. Lo so, il primo autogrill sull’Autostrada del Sole non è il massimo, ma sai che ti dico, cara Alice F. del Pre-Sales? Questo è quello che passa il convento.
    Metto la freccia, rallento, entro nel parcheggio dell’area di servizio. La guardo ancora. Non dorme, ci giocherei la testa. Però quegli occhi glieli devo far aprire. La chiamo? La tocco su una gamba (tanto ha i jeans)? Guarda, per non saper né leggere né scrivere, faccio tutte e due le cose.
    “Alice, ti va un caffè?”

    [Lei]
    Uomo carica valigia. Uomo sale in macchina. Uomo regola la temperatura dell’abitacolo. Uomo accende navigatore – uomo spegne cervello -. Uomo parte.
    Fin qui, tutto regolare. Gentile e compito. Quadrato. Lo osservo qualche istante mentre non mi vede, impegnato com’è a studiare la segnaletica. Fingo di non sapere le strade, voglio vedere come se la cava. Non è altissimo. Non è bruttissimo. Me lo studio in una manciata di secondi. La linea del suo profilo sembra mostrarmi un’espressione instupidita, fossilizzata da miliardi di ore passate in macchina, che mi innervosisce. Quelli come lui ci vivono, in macchina. Una macchina che non sa di niente. Nessun odore, nessuna traccia, nulla. Solo, un lieve disordine.
    Guardo in basso. Mi piace vedere le cosce maschili. Trovo che siano sexy nella posizione della guida. Che poi è la posizione seduta, ma tant’è. Chiamano la mano ad appoggiarcisi sopra. Questo è un mio parere, sia chiaro. Le trovo attraenti. Come le mani sui fianchi con l’abito elegante. Come un felpa con i jeans (come tutto, a ben vedere, in certi periodi di magra).
    Non mi va di spremermi a formulare congetture, a capire chi è e come è. Che vita fa già lo so. Mi pare leggermente pedante nello scambio di battute. Un po’ scontato. Bella mia, ora non cominciare a rompere. Sarà difficile per lui come per te stare qui con una sconosciuta, accompagnarla, tentare di rompere il ghiaccio. Si sta impegnando, poverino. Poverini. Sono tutti poverini, questi qui, come no. Ci scommetto che tempo un’ora e attaccherà a telefonare in giro per far scattare di paura qualche inutile sottoposto.
    Decido coscientemente – e questo è l’ultimo pensiero lucido prima di chiudere gli occhi – che non voglio parlare con lui. Se proprio, ci sarà tempo, e pure troppo. Decido che ho bisogno di riposarmi. Decido e me ne frego. Mi lascio sballottare leggermente finché non capisco che siamo usciti dalla città.
    Non mi interessa se mi vede dormire. Sono giovane, penserà che ieri sera sono andata a divertirmi. Si chiederà cosa ho combinato e gli verrà anche un po’ di invidia.
    E’ giusto così. Del resto, di cosa parli quando non sai di cosa parlare? Di cosa ti informi quando non c’è nulla che ti interessi? Cosa ti può colpire di una strada già segnata? Ci rinuncio.
    Finché lui non mi tocca.
    Dio che colpo. Ma ho dissimulato bene la sorpresa. Sgrano gli occhi e lo guardo – come si è permesso? Gli sorrido più che posso – sarà mica un porco bavoso? Accetto di buon grado il caffè che mi propone – se mi tocca ancora lo uccido. Apro la portiera e lascio che faccia strada verso il bar – quel ditino la prossima volta te lo tieni a casa tua, stronzo. Mi incammino tutta giuliva come fossi sveglissima – ma cosa gli è saltato in mente? Chi cazzo si crede di essere?
    Le risposte a volte sono le più semplici.
    Forse, l’ho un pochino esasperato.
    Poverino.
    Bene, ora sì che possiamo cominciare a fare conversazione.

    05/09/2008

    Tappe forzate – 1.

    Filed under: — JE6 @ 11:46

    Questa è una novella a puntate scritta a quattro mani.

    Intro
    L’idea è semplice: metti due sconosciuti in macchina, falli partire per un viaggio abbastanza lungo, e stai a vedere l’effetto che fa. I due partono oggi; non si conoscono, appunto, ma dovranno farlo lungo i 450 chilometri che li separano dalla meta. Sarà un viaggio a tappe: alcune necessarie, altre, impreviste. Se volete partecipare, accomodatevi: starete sul sedile posteriore. Però potrete intervenire, che i commenti son lì per questo. Se volete dare dei consigli a lui, scrivete qui. Se li volete dare a lei, fatelo di là. E adesso, prendetevi la vostra Xamamina, che non si sa mai.

    1. Prima partiamo, prima arriviamo

    [Lui]
    Io me lo sentivo già nel momento in cui mi è arrivata la mail di convocazione, che questo week-end sarebbe stato un disastro. “Sei invitato, in rappresentanza del MarCom Department, a partecipare all’Annual Kick-Off Meeting che si terrà nella magnifica location del Resort XXX, sulle rive del Lago Trasimeno. Ti prego di metterti in contatto con Alice F. del Pre-Sales Department, in modo tale che possiate viaggiare insieme nel rispetto delle regole di cost optimization”. Bingo. Quattrocentocinquanta chilometri di macchina in compagnia di una perfetta sconosciuta per andare a rompermi i coglioni ad ascoltare di che morte dovremo morire l’anno prossimo – come se non lo sapessi, come se tutti non lo sapessimo già. Cristo. Insomma, faccio il gentile, in fondo è sempre una collega, e poi io ho la macchina aziendale e quelli del Pre-Sales dubito visto che passano la loro vita alla scrivania; provo a telefonarle, e mi dicono che quel giorno è in ferie – iniziamo bene. Allora le mando una mail, e insomma a farla breve il lunedì successivo mi trovo incastrato nel dovermi presentare alle 7.30 del mattino sotto casa sua, con la prospettiva di un certo numero di ore passate a parlare di lavoro, a fingere interesse per questioni della massima irrilevanza, a inventarsi domande per fare conoscenza senza però essere indiscreti, a stare attenti a non dire fesserie perché il paese è piccolo e la gente mormora e ci si mette un amen a sputtanarsi in azienda.
    Così, eccomi qui, in divisa – gessatino blu scuro a sottilissime righe bordeaux, cravatta e calze in tinta, camicia bianca, scarpe inglesi – e sembro un sedicenne perché sono arrivato con un quarto d’ora d’anticipo ed è da quel momento che mi sono messo a fantasticare su com’è questa donna, giovane o matura, alta o bassa, bionda o mora, simpatica o insopportabile – oh, per una volta non sarebbe male se potessi scarrozzare una figona con il fisico da pornostar, e però a quel punto io non avrei esattamente le phisique du role per essere alla sua altezza – e non so se aspettarla seduto in macchina ostentando una specie di cortese indifferenza oppure in piedi, sul marciapiede, e allora come, con la giacca o senza, con le mani in tasca oppure giochicchiando con il BlackBerry, appoggiato al cofano oppure ciondolante mentre faccio due passi con noncuranza, e chissà se l’aftershave che ho messo – anche se non faccio la barba da tre giorni – si sente e se si sente troppo o troppo poco, e chissà quando cazzo arriva che così prima partiamo prima arriviamo al lago e chi s’è visto s’è visto.
    Sento il palmare vibrare, guardo il display, è Anna da Stoccolma che sicuramente vorrà sapere se anch’io posticipo di un mese l’uscita della prossima campagna pubblicitaria. Decido che le risponderò nel pomeriggio, non è una cosa tanto urgente. Rialzo gli occhi, e vedo una giovane donna uscire dal portone giusto: io non so come è fatta la mia collega, ma se fosse questa almeno potrei dire che gli occhi hanno avuto la loro parte. Così faccio una cosa che non è proprio nel mio carattere: faccio il primo passo, mi muovo verso di lei, accenno un sorriso e le chiedo “Alice?”. Lei ricambia il sorriso, dice “Sì”, e mi allunga la mano per salutarmi. Incrocio mentalmente le dita. Per essere una rompicoglioni, quanto meno è cortese. Tiro il respiro. Si parte.

    [Lei]
    Secondo me sono convinti che se lo scrivono in inglese riescono a mettertela in quel posto senza che te accorgi. No perché, con tutti i soldi che spendono in boiate come i meeting aziendali, poi mi vengono a parlare di “cost optimization”. Vale a dire: tu, pezzente, trovati un passaggio in macchina, pezzente. Caccia fuori il piattino e chiedi l’elemosina. E fatti una tirata immane fino a Sfanculonia Village per partecipare a giochi di gruppo da cerebrolesi o all’orientering nei boschi o al bagnetto in piscina col contorno di chiappe secche dei colleghi. Ma prima, cuccati un viaggio di settanta ore con un morto di sonno che non hai mai visto neanche in foto.
    Sono le sette. I milanesi come lui hanno la mania di partire per tempo, per evitare la tangenziale e la coda dei pirla che vanno al lavoro. Io la macchina la odio. Odio Milano e odio la macchina. C’è da dire che almeno mi è venuto a prendere sotto casa. Mi dà un po’ fastidio far vedere dove abito ma almeno non devo muovere il culo. I milanesi hanno la mania di darti appuntamenti chissà dove; per evitare la tangenziale, per non entrare in città, adesso pure per l’ecopass. A una che conosco l’anno scorso le è toccato presentarsi alle 6 e un quarto in piazzale Abbiategrasso. Avrei voluto impalarlo, quello stronzo che le dava il passaggio. Una donna. Alle sei del mattino. In piazzale Abbiategrasso. Bastardo.
    A me è toccato un uomo d’altri tempi. Del resto, l’età è quella. Mi sono informata, con discrezione. Quarant’anni. Oh, è poi tutto da vedere. Vuol dire mica nulla. Speriamo non sia un rottame
    Stamane mi sento lagnosa, che palle. Ho mal di testa, la sbronza che ancora mi gira intorno. Sento l’alito della morte che aleggia su di me. Ah, ah. Oddio che scema. Voglio dormire. In auto dormo sempre. Mi toccherà invece fare conversazione. Potrei mettere le cose in chiaro e attaccare a ronfare appena entrati in autostrada. Caffè. Gli chiedo se ci facciamo un caffè. Speriamo non sia un fanatico delle tappe forzate.
    Al vestiario ho dedicato quattro secondi netti. Jeans e polo. Col cavolo che gli faccio vedere le tette. Cosa ha fatto, per meritarselo? Ah, ah. Mamma mia che sonno. Scarpe da ginnastica tutta la vita. Ai meeting si va casual. Se proprio, mi cambio le scarpe prima di arrivare. Trucco, sì, il trucco ci vuole. Copriocchiaie e mascara. Il profumo più leggero che ho.
    Su, bella mia, ciucciamoci sta sbobba. Sorridi, pensa che sarà presto finita. E occhio alle parolacce, che non pensino che sei una tipa sboccata. Scendi le scale, datti un contegno. Sorridi e non fare figure di merda. Alito pesante? Troppo tardi per pensarci, bella mia. Provalo nella coppa della mano. Sembra tutto a posto. Esci dal portone, attenta a non inciampare.
    Eccomi qua.
    Oddio.
    Sarà mica quel pinguino che cincischia col telefono?
    Ma porcaputtana.