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29/12/2012
Dall’altra parte del telefono c’è uno di quei quindici che mi chiama col nomignolo di quando andavamo alle medie. Volevo dirti che è morto il Giulio, mi fa, visto che in quel bar ci hai passato anni ho pensato di avvisarti. Lo ringrazio, lo saluto, torno sul divano. Il bar di cui parla il mio amico non esiste più, ha chiuso una vita e alcuni morti fa. Per me rimangono le immagini che ogni volta che entro in quei locali mi tornano davanti agli occhi, a sinistra il tavolo delle boccette, a destra i due dei cinque birilli, più vicino quello dei principianti e più in fondo quello dei bravi e dei vecchi, e qualche storia raccolta in un pdf senza pretese, che chi vuole – se non l’ha fatto otto anni fa – trova . Il Giulio era il padre del Marco, il primo che si mise dietro il bancone per poi lasciare al figlio il compito di portare avanti la baracca. Per i bastardi casi della vita, il Marco è morto prima di suo padre, e sì, a rileggere queste poche righe ci sarebbe solo da far scongiuri, da pensare che quel posto magari stava sotto una cattiva stella, chissà. Ma tant’è, e oggi qui li si ricorda, il Giulio e il Marco, mentre ci portano una birra al tavolo dei principianti.
06/07/2007
Poco più di tre anni fa, ogni tanto scrivevo una quindicina di righe ambientate nel microcosmo di una sala biliardo. Con una sola eccezione, tutti i personaggi erano veri, uomini in carne e ossa che passavano un pezzo più o meno lungo di vita nel tentativo spesso vano di sdraiare cinque piccoli birilli. Due giorni fa se ne è andato uno, di quei personaggi; anzi, di quelle persone: perchè il Marco non era inventato, era vero e grande e grosso, e io adesso posso solo sperare che gli sia lieve la terra.
05/01/2005
Ricevo, e porto a casa con orgoglio: Ho letto quasi tutte le storie: belle e molto simili a quelle che ho vissuto per anni come gestore e giocatore della sala biliardo.
A quest’ ora,tarda, mi hai fatto passare un po’ di tempo in serenità.
Grazie, Garrik.
24/09/2004
Quei pochi eroi che hanno seguito i racconti di Cinque birilli (ai quali va il mio ringraziamento e la mia stupefatta ammirazione) oggi li possono trovare raccolti un pdf deluxe, con tanto di copertina e prefazione. Basta scorrere la colonna di sinistra e cliccare su “Scarica 5 birilli”, oppure cliccare qui.
26/08/2004
Il Luis ha passato una vita sulle rotative del Corriere della Sera; turno di notte, anno dopo anno, chilo dopo chilo.
Chi ha avuto la ventura di vedere le sue fotografie di trent’anni fa, non è riuscito a riconoscerlo. Il metroecinquanta non è aumentato, i cinquanta chili sono raddoppiati. Sarà per quello, che non soffre il freddo: nessuno lo ha mai visto indossare qualcosa di più pesante di un dolcevita di lana, anche in pieno gennaio, quando gli aficionados della sala sono costretti dal freddo a sopportare la moglie e le soap per venti minuti supplementari che sono eterni come il mutuo, o come il conto che il Marco tiene sul quaderno sotto il registratore di cassa.
Il Luis è un vento allegro che passa sui tavoli della sala; da quando ha minacciato di morte il venditore della Folletto che gli suonava il campanello di casa almeno una volta alla settimana, riesce a dormire cinque ore filate al giorno. Non è tra i primi ad arrivare ai tavoli, ma non gli importa di dover aspettare delle mezz’ore prima di poter prendere la stecca in mano, costretto a guardare gente che sarebbe degna, al massimo, di passargli il gesso sul puntale. Mangia un panino, legge il giornale che lui stesso ha stampato quindici ore prima, ride e scherza in un milanese che neanche Carlo Porta, e al Gino verrebbe uno schioppone se venisse a sapere che il Luis mica è nato a Milano, e neanche, chessò, a Bareggio, ma in un paesino delle Marche.
Quando si stende sul biliardo per un giro e messa, il Luis sembra una balena spiaggiata: ma della balena ha la stessa grazia e dolcezza. Ha un tocco lieve anche quando tira di tutto braccio, i birilli cadono come coperti da un’onda di acqua di mare. Io, di solito, gioco sul secondo tavolo, quello di serie B, quello degli aspiranti e di quelli che non parlano milanese: dal Luis non ho nulla da imparare, perchè puoi studiare il taglio a tenere e il mezzo colpo, ma non certo la leggerezza. Spesso incrocio la stecca con il figlio del Luis, e glielo vorrei dire che suo padre, lì dentro, viaggia una spanna sopra tutti gli altri per motivi che non hanno a che fare con la teoria del diamante o con i puntali in lega, bensì con la vita: ma un figlio che sta lavorando per diventare più bravo del genitore, un giorno dietro l’altro a impilare tre sponde e garuffe e sfacci per poi presentarsi al tavolo ed avere la soddisfazione di mandare il padre alla cassa a pagare il conto, un figlio così non ha nessuna voglia di sentire la celebrazione delle virtù paterne. Così, sto zitto; tra un colpo e l’altro, mi passo un po’ di saponaria sulla mano, e butto un occhio verso il Luis: non imparo, certo; ma mi diverto e mi rassereno, e mi pare che non sia poco.
27/07/2004
Anni fa – sei, sette – poco dopo il deposito dell’ATM di via Melzo, c’era una sala biliardo. Una vera sala biliardo, non un bar. Pochi tavoli, giocatori selezionati, fumo, alcoolici, occhiaie.
Non potevano giocare tutti. Ah, no. Si poteva prendere la stecca in mano solo su presentazione: si veniva introdotti al cospetto del padrone del locale, e se le garanzie date erano sufficienti, allora si potevano oltrepassare i cordoni che dividevano i tavoli (ed i giocatori) dagli spettatori. Perchè lì, in via Melzo, si andava a veder giocare i grandi: come a San Siro, o al Bernabeu, o all’Olympiastadion.
Si stava in silenzio, e si guardavano queste partite magnifiche, fatte di una quantità di colpi straordinari che noi, poveri mortali dalla mano tremolante e dal brandeggio incerto, mai avremmo potuto eseguire nella nostra vita di biliardisti.
Ricordo di aver visto Carlo Cifalà, nell’anno in cui diventò campione del mondo di cinque birilli. Una precisione, una pulizia, una implacabilità paurosa. Le partite a goriziana-tutti-doppi arrivavano ai quattrocento punti: lui, per avere un avversario, doveva trovare un altro professionista e dargli settantacinque punti di vantaggio. Di solito, vinceva.
Giravano cifre da paura, in quel locale, ma non si vedeva una banconota che fosse una. I giocatori, almeno i migliori, avevano un pool di finanziatori, con i quali dividevano perdite e vincite. Un giorno poteva voler dire quindici, venti milioni in più o in meno sul conto in banca.
Questa mattina sono passato davanti al deposito dell’ATM, ed ho iniziato a buttare l’occhio per ritrovare le serrande della sala biliardo. Ho trovato uno di questi locali fighetti (cafè, li chiamano: ma vaffanculo). Ho allungato il passo, ho pensato a Cifalà, alle biglie che scorrevano su quei tavoli, ai racconti che ci facevamo tornando a casa in metropolitana, alla stecca che non uso più ma dalla quale non mi separo, e sono invecchiato ancora un po’.
24/06/2004
Ai tavoli, e qui al bar in generale, lo si vede poco, il Leo.
Per fortuna. Perchè il Leo è l’emblema della periferia delle grandi città europee, il simbolo dei brutti sporchi e cattivi che permettono di scrivere venti righe in cronaca e danno un brivido di paura, uno di ribrezzo ed uno di eccitazione alle troiette dei collegi del centro.
Non è Jessica Rabbit, il Leo: non lo dipingono così. Lui è così. Ignorante e violento, e probabilmente un po’ stupido. Abita a poche scale di distanza da casa mia, lo conosco di vista fin da quando ero piccolo. Mi ha sempre fatto paura. Paura, mica altro. Paura da sentirsi il cuore accelerare, paura da cercare di cambiare strada senza dare l’impressione di farlo: certo, perchè è capace di prenderlo come un affronto, di venire a prenderti e di riempirti di botte fino allo sfinimento, lui, il suo bomber, i suoi jeans stretti e scoloriti, i suoi anfibi.
Ne ha mandati tanti all’ospedale, il Leo. Per ogni costola rotta, una impotente lacrima di sua madre, per ogni coltellata una nuova ciocca di capelli bianchi di sua sorella.
Fa paura a tutti, uno così, anche ai ganassa che passano la loro vita con una stecca in una mano e il pacco nell’altra. E quelle poche volte che arriva, il bar si zittisce, come capita quando passa il Parroco. Ma tutti sanno che l’uomo nero è buono e innocuo, mentre questa specie di naziskin che il nazismo non sa proprio cosa sia è cattivo e stupido, tutti sanno che se ti fa una domanda con la sua solita aria da tispaccoilculo qualunque risposta potrebbe essere sbagliata, tutti sanno che se ne sbatte i coglioni della polizia e due mesi dentro chissenefrega. Tutti sognano di rompergli la stecca su quella cazzo di testa pelata che si ritrova, di vederlo a terra, sanguinante e con i denti sparsi sul pavimento, a implorare basta.
Succederà, prima o poi. Qualcuno gli ficcherà una lama in mezzo alle costole, qualcuno gli darà una sprangata davanti allo stadio, qualcuno gli tirerà due colpi di setteesessantacinque. E noi, senza dirlo ma senza vergognarci, ne saremo contenti.
17/06/2004
Non lo si vede tanto spesso, il Parroco, e in effetti qui dentro fa la figura della mosca bianca.
Quando arriva, con la sua andatura da prete di campagna che non è mai riuscito davvero a prendere confidenza con la città, il bar si ammutolisce. Intorno ai biliardi in molti iniziano a guardare con più attenzione il puntale della stecca, i gessetti blu vengono passati con attenzione maniacale, le partite si rallentano fin quasi a fermarsi.
Ai tavoli del ramino si spengono le sigarette, le carte scivolano invece di sbattere, le bestemmie restano in gola.
Lui sorride come un papà smarrito, saluta quel paio di uomini che conosce almeno di vista e va al banco, dove il Marco si asciuga le mani nel grembiule bianco e gli stringe la mano con deferenza. Chè c’è questo di strano, di questo posto dove ci costruiamo ogni giorno la nostra epica di periferia: che ‘sto bar, dove gesucristo passa di bocca in bocca e cade ogni dieci secondi insieme ai birilli della goriziana, vive e prospera nei sotterranei di una chiesa. Al piano di sopra le vecchiette sgranano il rosario, al piano di sotto i vecchi ubriaconi ed i randagi di quartiere tirano sera come sanno e come possono.
E lui, nei suoi vestiti neri un po’ lisi, preso da un imbarazzo che non è solo suo ma di tutti noi, sta lì a girarsi le mani, a rifiutare il bicchiere che il Marco gli offre un po’ per piacere e un po’ per dovere, in quest’aria sospesa e ferma che aspetta qualcosa e chissà cosa. Dopo un po’, dopo aver detto cento volte “bene, bene”, dopo aver fatto passare gli occhi miopi sulla copia spiegazzata della Gazzetta, dopo aver provato a capire – ma senza riuscirci – il tabellone del Fantacalcio, decide che il suo tempo l’ha fatto.
Saluta il Marco, saluta tutti quelli che vede nei dieci metri quadri che gli stanno intorno e che gli rispondono con un cenno che sta a metà tra il buonasera e il vaffanculo, e ondeggiando riprende le scale che lo riportano verso la cappella dedicata ai Tre Santi Martiri. Si riaccendono le sigarette, con un sospiro di sollievo il Gino tira una madonna in dialetto, il Roby tira il suo tre sponde e mette giù i soliti tre birilli in fila, brutto bastardo invincibile e senza cuore.
10/06/2004
E’ un re senza regno, il Loris. Perchè giù in sala le boccette non le consideriamo. Il biliardo nobile è quello che si gioca con la stecca, su questo non si discute; le boccette, invece: gioco di mano, gioco di villano.
Eppure, il Loris con le mani è un mago. Sul serio. Fa fare di tutto a quelle biglie. Le mette dove vuole, regola angoli, effetti e velocità con una naturalezza che fa quasi spavento; batterlo è quasi impossibile, sulle tre partite: ne puoi vincere una per il rotto della cuffia, ma due, beh, se ti capita devi offrire un giro a tutti e segnare in rosso sul calendario.
Il Loris sorride sempre, che è cosa strana perchè rara, da queste parti. Arriva con la sua polo con tutti i bottoni allacciati, e quando è inverno, a volte, indossa anche una giacca a quadri che però non fa effetto su alcuno dei Lord Brummel che piegano la schiena sul tavolo verde tra gemiti e rutti. Qualcuno con cui giocare lo trova sempre, perchè, anche se la sorte della partita in genere è già segnata, il Loris è un buon diavolo che a volte, addirittura, vince ma paga lui il tavolo. Non beve, non fuma, parla poco e non dice parolacce. Sembra che non soffra di complessi di inferiorità verso quelli della stecca: a lui le boccette piacciono, davvero; e infatti, a volte si mette a giocare da solo, mezz’ora a provare acchiti, accosti, bocciate.
Poi, si rimette la coppola, sempre con quel mezzo sorriso che a volte ti viene il dubbio che soffra di una paresi, e torna a casa. Sua mamma ha novantadue anni, e lo aspetta. Deve essere un bravo figlio, il Loris.
17/05/2004
Non capivo cos’aveva, oggi, l’Alberto.
Certo, non è il miglior giocatore che fa scorrere la stecca su questi tavoli di periferia, ma di solito è affidabile, piazza qualche bel colpo, difende bene, se c’è un tiro comodo non lascia punti per strada: un buon mediano, insomma, e di buon carattere, uno che non alza gli occhi al cielo se tu, suo compagno in una goriziana tutti doppi, butti al cesso la partita con un raddrizzo del quale ti vergognerai per almeno una settimana. Uno che, piuttosto, sorride, e poi addirittura ti offre il caffè, roba che ti scaveresti la fossa con le tue mani.
Comunque, oggi non c’era verso di vedergli marcare un punto che fosse uno, e poi quella faccia terrea e malinconica che, una volta finito il massacro al quale siamo stati sottoposti, mi ha portato a chiedergli cosa c’era che non andava, se aveva mal di testa, e insomma non avrebbe dovuto sentirsi obbligato quando gli ho chiesto se voleva farmi da socio per una partita.
E lì, ecco, lì con il gomito appoggiato sul bancone mezzo unto e mezzo umido, lì è crollata la diga.
Lo ha lasciato la moglie. Così, da un giorno all’altro. Senza nemmeno dargli troppe spiegazioni: un taglio netto, ha detto lei. E basta. Addio. Ma come, cazzo, dico io, nessun preavviso, nessun segnale premonitore? No, no, le solite discussioni tra marito e moglie, anche belle discussioni, perchè sono tutti e due di buona cultura, leggono molto, si informano, hanno una visione del mondo che è già una gran cosa, di questi tempi. Certo, lui è un relativista, uno di quelli ai quali piace stare in pace con il mondo, e quando c’è qualcosa che non va pensa sempre se è colpa sua – e, sinceramente, questo lo rende il socio ideale per una partita a biliardo, ma non so per un matrimonio. E lei invece, da quello che lui mi racconta, è una di quelle donne solide, con le idee chiare, una persona forte ma non arrogante, una dalle opinioni nette. e chissà se in questo piccolo e parziale ritratto che l’Alberto mi dipinge con un indice che vaga nel vuoto e con un Campari nell’altra mano (un Campari, cazzo, lui che non beve alcolici) dice abbastanza di lei – e di lui.
Ma insomma, è andata così, come in un telefilm americano, come in un racconto di Carver, lei ha preso e se ne è andata. Basta.
E io sono lì, con gli occhi che girano da una parte all’altra del bar, con l’imbarazzo e il dispiacere che mi prendono fino alla punta dei capelli, perchè l’Alberto non è un amico, ma è di certo una brava persona e le brave persone non dovrebbero avere dispiaceri così, che insomma, cazzo, avrà pure lui le sue colpe – e chi non ne ha? – ma dico, boh, non so nemmeno cosa dire.
Tutto ciò che mi viene è offrirgli un’altra oretta di cinque birilli, così, per distrarsi, e sono contento quando lui dice di sì, e sono ancora più contento quando inizia a giocare e non sbaglia più una biglia, strisci, garuffe, raddrizzi, un cinque sponde che gli dico mavaffanculofiguratiseriesciarifarlo e lui, cinque minuti dopo me lo piazza ancora pari pari e insomma, non l’ho mai visto giocare così e forse non lo rivedrò mai più.
Ci salutiamo, con un pudore irragionevole, con gli abiti fatti di cotone, acrilico e Marlboro; io pago contento e lui ha un mezzo sorriso che gli sforma la bocca, mentre prende la strada per andare a casa, quella casa che ieri era piena di una donna amata ed oggi è vuota come un biliardo senza biglie e senza birilli.
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