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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    18/01/2016

    Back soon

    Filed under: — JE6 @ 14:52

    Qui si devono fare dei lavoretti di manutenzione (non so bene di cosa, ma so che si fanno), se torniamo torniamo a breve.

    [Siamo tornati. Noi. Noi chi, vai a sapere]

    24/11/2015

    Cose/3

    Filed under: — JE6 @ 15:13

    Come una sagoma sul pavimento
    come sabbia sotto il cemento
    come una magra malattia
    come il passato
    in una fotografia

    Nessuno capì mai perché lo fece, cosa gli passò in testa quando decise di uscire di casa in piena notte per attraversare mezza città e fermarsi in mezzo al marciapiede, davanti al bar tabacchi di fronte al quale era casualmente passato quella mattina. Nessuno capì mai perché lo aveva colpito così tanto la sagoma che un poliziotto aveva disegnato con il gesso seguendo il contorno del cadavere di un rapinatore senza fortuna, né tanto meno perché aveva deciso di stendersi per terra adeguandosi a quella forma, calcolando che il braccio destro sarebbe caduto a riempire esattamente quel pezzo di asfalto in mezzo a una riga bianca subito dopo aver tirato il grilletto. Nessuno seppe mai perché nella tasca destra dei pantaloni stazzonati ci fosse la fotografia a colori di una bambina scalza ed emaciata che colore della pelle e lineamenti non portavano a lui in alcun modo – qualcuno pensò a una relazione segreta, altri ad un’adozione a distanza, senza che questa o quella ipotesi avesse anche un minimo fondamento nelle insignificanti tracce che si era lasciato alle spalle, lievi come lo strato di polvere che copriva i mobili del suo appartamento. Nessuno capì mai tutto questo, né i colleghi né i vicini di casa, anche quei pochi arditi che il giorno dopo risposero sì, abbastanza a chi gli chiedeva se lo conoscevano. Nessuno lo capì mai, e solo la fortuna di aver mentito dando quella risposta li protesse dall’infinito sconcerto che li avrebbe presi se solo avessero saputo che nemmeno lui aveva capito quel che stava facendo e quel che stava per fare nel momento in cui decise di uscire di casa in piena notte per attraversare mezza città e fermarsi in mezzo al marciapiede, davanti al bar tabacchi di fronte al quale era casualmente passato quella mattina.

    25/10/2015

    Allarme Rossi

    Filed under: — JE6 @ 20:51

    La prossima volta che vedete un grillino parlare di Kasta pensando a deputati e senatori, chiedetegli se ha fatto l’abbonamento Sky e ha il pacchetto Sport, quello con i motori. Se vi risponde sì, sorridete e dategli una carezza sulla nuca, e poi tornatevene tranquilli a casa, ché è inutile lottare contro i mulini a vento.

    14/06/2015

    Destinazione paradiso

    Filed under: — JE6 @ 20:37

    Non riesco nemmeno a ricordare da quanto lavoriamo insieme, noi quattro. Saranno dieci anni, ormai. Quante bare abbiamo portato in chiesa, quante ne abbiamo fatte uscire. All’inizio non è stato facile abituarsi, i funerali non piacciono a nessuno. Poi è diventato un lavoro, una cosa da fare bene quel tanto che basta per continuare a tenere il posto, portare a casa uno stipendio alla fine del mese e tirare su qualche mancia, un quarto a me, un quarto a Paolo, uno a Franco e uno a Roberto. Non ci hanno più divisi, il caso ha voluto che fossimo alti uguale, robusti uguale, due biondicci e due mori, sembriamo fatti apposta per stare insieme, per fare gruppo. A volte, una volta iniziata la funzione, se conosciamo la zona o se arrivando con il carro funebre abbiamo visto un bar che ci sembra decente usciamo dalla chiesa e andiamo a berci un caffè e mentre camminiamo sul marciapiede c’è sempre una macchina che rallenta e una ragazza che ci guarda perché fino a quando non ci arrivi proprio vicino vicino non capisci che le nostre sono divise di un’agenzia di pompe funebri, non di qualche corpo militare o di una compagnia aerea, e sembra che ci siano poche cose capaci di colpire una donna come una camicia bianca e un nodo della cravatta stretto al punto giusto. A volte però portiamo la bara in chiesa, percorriamo la navata centrale, ci fermiamo davanti all’altare, sbrighiamo le cose che dobbiamo fare con la sincronia di un corpo di ballo e poi invece di andarcene per mezz’ora ci fermiamo e aspettiamo. C’è qualcosa che ce lo fa capire e non abbiamo mai bisogno di consultarci, sarà che in tutto questo tempo passato insieme siamo diventati amici e ci conosciamo e capiamo senza bisogno di parole. A volte la chiesa è così piena che si capisce che il morto era uno che contava: non perché fosse uno importante, uno che finiva sui giornali, ma perché contava per quella gente lì, per quel quartiere, quel gruppo di case, e allora ci piace provare a capire chi era, cosa faceva, perché la gente gli voleva bene o perché lo temeva o perché lo rispettava. A volte invece la chiesa è così vuota che restare, anche se in ultima fila, sembra proprio quella che mia nonna chiamava un’opera buona che non si nega a nessuno. Io non sono molto credente, così quando sto lì in quell’ultima fila la testa mi va un po’ di qua e un po’ di là, spesso penso a Giovanna, a dov’è, a cosa fa, a come sta, a quando otto anni fa ci siamo lasciati senza mai essere stati insieme e da quel momento non c’è stato un solo giorno che non l’abbia pensata, altre volte mi vengono delle immagini di posti dove sono stato in vacanza, arrivano così, di sorpresa, che è come se fossi lì su quella spiaggia o in quella piazza e potessi sentire i rumori e i profumi e ogni volta mi pare uno scherzo cattivo, una trappola un po’ crudele. Poi la messa finisce, noi ci alziamo, ci prepariamo, io e Franco davanti, Paolo e Roberto dietro, attraversiamo la navata fino all’altare e tutti ci guardano per un secondo, rifacciamo i nostri movimenti da ballerini, ci mettiamo la bara in spalla e ci dirigiamo verso l’uscita e a volte capita che dalle porte aperte della chiesa arrivi una luce bella, che si veda il sole e il cielo azzurro e in quel momento lì vorremmo tutti essere da un’altra parte e al tempo stesso vorremmo tutti che esistesse un qualcosa che non conosciamo e ci aspetta, un posto bello dove andare a passare tutto il tempo che ci resta, come se quel grosso barcone Mercedes che ci aspetta sul sagrato fosse la macchina col serbatoio pieno che ci porta in vacanza, destinazione paradiso.

    06/01/2014

    Giorno di festa

    Filed under: — JE6 @ 20:00

    Sono passati quattro anni e qualche ora da quella notte in cui lo vedemmo spegnersi davanti ai nostri occhi. E il verbo non è usato a caso. Qualche giorno dopo ci fu il funerale, e poi andammo avanti, intontiti da quel che era successo, e da quel che alcuni di noi avevano visto, e raccontato. Negli anni successivi abbiamo preso l’abitudine di trovarci al cimitero nel giorno dell’anniversario della sua morte, che è anche un giorno di festa – seppure strana perché è quella che chiude le settimane che contengono Natale e Capodanno. Stiamo davanti alla sua foto, diciamo una preghiera, attraversiamo il quartiere a piedi, ascoltiamo una messa in sua memoria, e beviamo un bicchiere di vino. Così ogni anno ripartiamo da lì, da quella fotografia, da quei ricordi, ci beviamo sopra con una risata storta e, appunto, andiamo avanti. Da fuori forse sembriamo un branco di nostalgici del cazzo: ma non è che si deve sempre rendere conto di tutto a tutti, e quindi.

    19/03/2013

    Stories of the Bund – Con le cuffie

    Filed under: — JE6 @ 11:16

    Che fregatura, l’abitudine. Quella cosa che fai la stessa strada tutti i giorni – sei qui per lavorare, no? – e allora un giorno ti metti le cuffie, spingi bene per non essere sopraffatto dal rumore costante, random play e sì, sei a Shanghai ma non te ne accorgi, il palazzo del K5 è lo stesso di ieri e dell’altroieri, il panificio non è cambiato e nemmeno l’uscita della metro, sei dall’altra parte del mondo ma non ci fai più caso – quello che ti entra nel cervello è questa canzone, un pezzo di autostrada sotto la pioggia tra Novo Mesto e Zagabria, e quest’altra che arriva subito dopo, il parcheggio del Tropicana a Las Vegas con il suo festival del chili, e quest’altra ancora che non è nessun posto se non un buco lontano dentro lo stomaco, sei qui e in dieci altri posti diversi, sei qui e da nessuna parte fino a quando vedi i tre scalini e l’entrata del palazzo dove abiti, e adesso dove ho messo le chiavi.

    11/08/2012

    Il sabato del villaggio

    Filed under: — JE6 @ 10:24

    L’uomo si siede al tavolo della pensione che porta il numero della sua camera. La donna si asciuga le mani nel grembiule, prepara un vassoio – una tazza di latte bianco, due fette biscottate, una piccola confezione di marmellata all’albicocca – e si avvicina. Buongiorno, buongiorno, come andiamo oggi, l’uomo non risponde, pare distratto. Va tutto bene chiede la donna, certo non si preoccupi risponde l’uomo. Se mi permette lei non mi convince, dice la donna, e l’uomo risponde guardi, ieri non una telefonata, non una mail, non un messaggio di lavoro, mi pare strano, ho fatto tutti i controlli, il server di posta funziona, ho telefonato a un collega fingendo di chiamarlo per sapere come stava, come andavano le sue ferie e quello dice tutto a posto, non so. La donna appoggia una mano sul tavolo, senta, lei dovrebbe essere in ferie da una settimana, cerchi di rilassarsi, ma io sono rilassato, ma per tutta la settimana mi hanno cercato, io rispondevo, facevo conti, pensavo, adesso di colpo silenzio totale, sarebbe preoccupata anche lei. La donna alza la mano dal tavolo, la allunga verso il cliente di una vita, gliela appoggia su una spalla, signor Faussone, gli dice, ieri era sabato, succede che la gente si ferma di sabato, ad agosto, anche durante le ferie, stia tranquillo e si goda la colazione. Lui guarda un po’ nel vuoto, poi beve veloce il suo latte bianco, non sono abituato, risponde.

    30/10/2011

    Invisible Sun

    Filed under: — JE6 @ 17:23

    La prima mattina di nebbia era una mattina di domenica, assonnata e confusa. Era una nuvola umida con la consistenza e il calore umido di una coperta di pile. Stette prima alla finestra, fino a quando gli occhi gli si riempirono di piccoli prismi colorati, poi si vestì con calma, si infilò un giubbotto leggero e uscì di casa. Camminò sul marciapiede, passò l’incrocio, attraversò il parco giochi, sfilò a fianco del ristorante cinese, sempre con le mani in tasca e la testa svuotata. Quando imboccò il lungo viale alberato alzò gli occhi verso il cielo. Era una nebbia luminosa, di quelle che lo facevano sentire a casa, che facevano percepire il sole invisibile su in alto, come nel primo autunno. Passò la grande entrata di pietra grigia, sentì i piccoli ciottoli della stradina scivolargli sotto i piedi, scese la scala scivolosa, si guardò intorno cercando il corridoio giusto e finalmente arrivò davanti alla lapide. Rimase per qualche minuto così, a fissarla, poi si mise a parlare a bassa voce, rivolgendosi a quella piccola fotografia sorridente, incorniciata in un ovale grande quanto un uovo. Raccontò della partita che avevano giocato su al campo della colonia alpina, del weekend che stavano progettando per la fine del mese – sai quello che c’eri anche tu, quello che hai guidato per trecento chilometri senza mai mettere la sesta dio solo sa perché -, della Juve e dell’Inter. In fondo al corridoio passò una signora anziana che si appoggiava a un bastone. Rimase in silenzio quando esaurì le cose da dire. Poi fissò la fotografia, mormorò vaffanculo senza rabbia, appoggiò due dita sul marmo e si voltò per tornare all’aperto. Forse, entro qualche ora la nebbia si sarebbe alzata.

    20/08/2011

    Memorie

    Filed under: — JE6 @ 19:12

    Ma voi, voi ve la ricordate l’ultima volta che questo paese NON è stato in crisi? Io no.

    20/11/2010

    La ciliegina

    Filed under: — JE6 @ 09:09

    Ci è voluto un po’ perché la stanchezza cominciasse a lasciarmi. Ho dovuto sedermi, appoggiare la borsa sul sedile posteriore, baciarti sulla guancia, dirti “abbastanza bene” quando mi hai chiesto “come stai”, socchiudere gli occhi mentre attraversavamo la città e sorridere piano mentre sfilavamo in autostrada, come un serbatoio che si riempie goccia dopo goccia. Quando hai imboccato la strada provinciale mi sono guardata intorno, ascoltando la tua voce che si faceva forza di essere più allegra del solito raccontarmi delle cose che ci stavano accanto, perché avevi capito che avevo bisogno di silenzio, e di qualcosa di bello che lo riempisse, e in quel momento di bello potevi esserci solo tu e il profilo verde della collina sulla quale stavamo salendo. Quando mi hai mostrato quella vecchia rocca ho avuto la tentazione di dirti “fermiamoci qui, portami a bere un caffé, a fare quattro passi, fermiamoci qui e basta”, ma poi non l’ho fatto – eppure so che tu mi avresti dato retta, che lo avresti fatto, che lo avresti fatto per me. Ma sono contenta lo stesso, quel caffé sarebbe stato soltanto la ciliegina sulla torta, una torta che ci siamo comprati senza dircelo, come facciamo sempre; allora ho guardato la tua mano, che non poteva lasciare la leva del cambio, l’ho guardata e ho sorriso, l’ho sfiorata col pensiero, senza dirtelo. Poi tu hai detto una battuta, una scemenza qualsiasi, io ho riso, “sei uno scemo” ti ho detto e tu mi hai risposto “per servirla, signora” e, non importa per quanto, sono stata bene.