|
|
14/02/2025
Non ho mai avvertito particolari imbarazzi nello scrivere cose destinate ad altri; figuriamoci, sono uno di quelli che con scarso senso del ridicolo si è persino autopubblicato due libri. Eppure, in questi ultimi anni quando ho pensato di scrivere qui, un posto che ho aperto esattamente ventidue anni fa, ho provato sempre più frequentemente una sensazione di imbarazzo. Non inutilità, proprio imbarazzo: quello che si prova per motivi di forma, opportunità, buona creanza. Non saprei dire il motivo, probabilmente – come accade quasi sempre – non ce n’è uno solo. Ma è così, ed è come una specie di disagio senile: mi piacerebbe non provarlo, non così intenso, perché penso che tanti piccoli spazi come questo, come i blog di venti anni fa sarebbero ancora utili dentro una cornice più grande. E però.
02/02/2025
Primo Levi conobbe Heinz Riedt nel 1959. Impiegò anni per incontrarlo di persona e i due non smisero di darsi del Lei fino al secondo o terzo incontro faccia a faccia, che avvenne solo parecchi anni dopo l’inizio della loro collaborazione autore-traduttore e di quella che poco tempo dopo sarebbe diventata un’amicizia tra le più importanti nella vita di entrambi.
Si scrissero oltre cento lettere, scritte tutte in un italiano che noi oggi fatichiamo a sentire nostro per la bellezza, la ricercatezza senza affettazione, la cura. Era un’epoca in cui persone così si sedevano alla scrivania e stendevano una minuta, la rileggevano, la correggevano, infilavano un foglio bianco nella macchina da scrivere accompagnato da un foglio di carta carbone e uno di velina, battevano facendo attenzione a non fare errori e alla fine riprendevano in mano la penna per firmare. La velina restava nell’archivio personale, il foglio principale prendeva la via del servizio postale. Era un altro mondo, nel quale vale la pena ricordare che a fianco di persone come Levi e Riedt vivevano milioni di analfabeti: non è giusto sentirne nostalgia, ma un più o meno piccolo senso di perdita di alcune cose che rendono belli gli umani, ecco, forse quello sì.
30/10/2024
Ho una lista, non particolarmente strutturata, di argomenti che mi interessano, dei quali vorrei veramente saperne di più. Non tanto in termini di cronaca, che pure è spesso il punto di partenza: ne vorrei sapere di più in profondità, per così dire; cerco di farlo, quasi tutti i giorni: mi piace. Gaza, l’Internet moderna fatta solo di walled gardens, la giustizia riparativa, la dittatura sudcoreana tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, le teorie economiche sui fallimenti delle nazioni, i miti greci, l’intelligenza artificiale, le guerre del Caucaso. Potrei andare avanti, ma ci siamo capiti. Spero, almeno. Perché sembra una lista fatta tirando fuori palline precompilate da un sacchetto, come si fa con i numeri della tombola: e invece, giuro, sono tutte cose che mi sembrano importanti. Non solo interessanti: importanti e non solo per me, ma per tanti, qui e ora. Anche i miti greci, sì, ché qualche sera fa sono andato a vedere “Antigone” dentro il carcere di Opera e pareva Tebe e la periferia di Milano fossero una cosa sola. Magari lo erano. Comunque. Prendo libri, li leggo, ciascuno mi porta a un altro libro, la lista si allunga per gemmazione. Quasi tutte le volte, arrivato alla fine di quello che in fondo è un capitolo, uno dei tanti, sento di saperne di più e proprio per quello di saperne di meno. Non è che la saggezza è sapere di non sapere: anche, sì, va bene. Ma è che, soprattutto, non ha limiti ciò che per me, per un piccolo, insignificante omino è bello sapere. Bello, prima ancora di utile. Bello anche perché non è immediatamente utile e probabilmente non lo sarà nemmeno in futuro. E’ una sensazione spesso frustrante, questa di voler sapere e non averne il tempo, non abbastanza. Succede a tutti, almeno a tanti, lo so: succede dalla notte dei tempi. Eppure.
18/10/2024
Io ogni tanto penso a quel periodo – una ventina di anni fa – in cui un po’ di noi tenevano un blog, un oggetto la cui forma, essenza, struttura secondo alcuni “encourages you to look inward, whereas every social platform on the internet encourages you to look outward“, e ogni giorno (sul serio: ogni giorno) ci pareva di avere qualcosa da dire perché c’era qualcos’altro che ci aveva prima fatto riflettere. Ci penso, e non so cosa pensare.
Per la citazione di Jim Nielsen si ringrazia la newsletter del sempre valido Davide Tarasconi.
01/10/2024
Il chitarrista deve essere il più timido, perché se ne sta dietro tutti, dietro persino al percussionista, che suona un cajon di primo prezzo e a volte socchiude gli occhi. Il cantante ha il physique du role, ci sa fare, passa da un brano all’altro con una battuta e si tira indietro sugli assoli, il bassista è il più tenero di tutti perché è il più giovane – ma giovane davvero, non può avere più di venticinque anni e forse pure di meno, i capelli da bravo ragazzo e l’attenzione spasmodica a non sbagliare per non far brutte figure con gli altri che potrebbero tutti essere suo padre. E il tastierista, che poi è un polistrumentista perché quando c’è bisogno passa lui alla chitarra e poi pure al basso – avete mai sentito il riff di Satisfaction fatto con il basso? Io mai, ma ora grazie a lui so che è possibile, come so che è possibile sognare all’altezza dell’ingresso del braccio due del carcere, di un carcere dove ci sono tante pene di lunga durata, glielo si legge in faccia mentre fa volare le dita sulla tastiera ed entra in un mondo tutto suo e chissà cosa gli gira per la testa – se gli gira qualcosa per la testa – quando la voce del cantante si spezza impercettibilmente su “per poter riderci sopra, per continuare a sperare” oppure se non gli interessa, se gli bastano quei tasti bianchi e neri, se la sua felicità è piena quanto la nostra che potremo avere una volta fuori da qui.
11/09/2024
Sono le 13.52 e non so se sono io, se è la mia bolla, se è che l’estate sta finendo e un anno se ne va, fino a questo momento ho visto un solo post che ricordava, peraltro tangenzialmente, quella cosetta lì delle torri.
12/07/2024
C’è un luogo dove mi fermo, prima di entrare nella cittadina che fu il vero centro operativo del genocidio. Potočari, con la fabbrica che fungeva da quartier generale dei caschi blu e i suoi spazi enormi e umidi che diventarono troppo piccoli per contenere le migliaia e migliaia di persone terrorizzate in fuga dalle truppe di Mladic, la distesa di stele bianche a coprire le colline come uno scialle di marmo, il piccolo chiosco che con una certa dignitosa sobrietà vende le spille con il fiore fatto di undici petali bianchi intorno al centro verde come il paradiso islamico e come le bare delle vittime, la fossa comune secondaria di Budak 1 di cui mi sono salvato le coordinate geografiche – un rettangolo di terra sulla quale pare che l’erba faccia fatica a crescere mentre tutto intorno è un rigogliare esemplare di piante da frutto.
Mi resta l’immagine di una donna velata che prega piangendo le lacrime di un dolore inesauribile, inginocchiata di fronte a due tombe. Il compagno la aspetta a qualche metro di distanza, custodendone la solitudine come se non volesse rompere con la propria presenza il cerchio intimo che lega la donna alle due colonne di marmo sulle quali, insieme ai nomi dei due morti, è inciso il meraviglioso versetto del Corano che recita “E non dire di quelli che sono morti sulla via di Allah: ‘sono morti’. No, sono vivi ma tu non li senti”. Li fisso restando in disparte provando l’irrazionale istinto di andare da quella donna e abbracciarla come se questo potesse servire, o avere un senso; quando si alza, l’uomo le si avvicina e le si accosta accompagnandola lungo il breve sentiero sterrato che divide un campo di tombe da un altro in direzione del grande ingresso del cimitero: io, invece, mi porto lentamente di fronte alle due tombe, leggo i due nomi e l’identico cognome – mi immagino due fratelli, uno di diciannove e l’altro di ventitré anni nel giorno in cui vennero massacrati, e una sorella che è morta quel giorno restando poi incollata al destino implacabile e spietato di chi rimane, sentendosi in colpa per il solo fatto di essere viva.
Uscendo dal cimitero mi torna in mente il luminoso giorno di dicembre in cui mi trovai insieme a un collega ad aspettare l’autobus che collega il campo di Auschwitz a quello di Birkenau. Scambiammo le quattro parole senza peso che si dicono per non restare completamente in silenzio quando si è in compagnia, anche se quella sarebbe l’unica cosa sensata e giusta da fare: tacere, deglutire e tenere dentro a forza quel che si è visto sapendo che si sta per incontrare qualcosa di ancora peggiore. Ci avvicinammo a Michele, la guida che ci accompagnava nella visita dei campi, l’uomo che un secondo prima di muovere il passo verso il cancello del campo, quello dell’Arbeit Macht Frei, ci aveva detto serio e quasi tagliente: “questa non è una gita, non è un’escursione; state entrando in un cimitero, comportatevi di conseguenza”. Gli chiedemmo da quanto tempo faceva quel mestiere, portare per tre ore abbondanti piccoli gruppi di persone a guardare con i propri occhi i luoghi del più grande sterminio organizzato che la storia ricordi. “Otto anni”, rispose, e a noi sembrò un’enormità, otto anni di crematori e camere di tortura e torrette e baracche e mucchi giganteschi di scarpe e capelli e valigie e uniformi a strisce e latrine: com’è questo lavoro, gli domandammo, senza riuscire né ad articolare meglio né tanto meno a immaginare la risposta; lui fece un sorriso mesto e consapevole: “non è il dentro, sono le domande che ti fai quando sei fuori”, disse con una voce tranquilla, e dentro si sentiva qualcosa che non era stanchezza o rassegnazione, era piuttosto la convinzione ostinata, costruita giorno dopo giorno e crematorio dopo crematorio, che devi provare a dare un senso a quello che fai per renderlo utile e buono e giusto per te e per gli altri. Poi arrivò l’autobus, Michele ci fece cenno di salire e noi ci muovemmo. Faceva freddo ma era una bella giornata di sole, come oggi a Potočari.
12/06/2024
Qualche giorno fa ho letto “Ci vediamo in agosto”, il racconto lungo (romanzo breve? vai a sapere) di Gabriel Garcia Marquez pubblicato postumo dieci anni dopo la sua morte. Io con Gabo ci sono cresciuto, l’ho letto e riletto e riletto ancora in diversi momenti della vita, e anche quando ero immerso nelle passioni del momento, pure quelle che sarebbero diventate amori duraturi – Philip Roth, Svetlana Aleksievič, Elizabeth Strout, Robert Perišić – lui era lì con la meraviglia della sua lingua, con i suoi personaggi ormai diventati parenti e amici e misteri mai abbastanza svelati.
Mentre lo leggevo – lui, e il libro – non riuscivo a non pensare a mio padre. Era come avere di fronte un uomo anziano, molto anziano ma ancora in buona forma e ritrovarne i bagliori dell’età adulta, di quando era forte, la voce sicura, gli occhi brillanti; era ancora lui, solo un po’ meno, una sua versione affievolita alla quale era impossibile non voler bene perché c’era ancora tutto quello che ti aveva preso il cuore tanto tempo prima. Gabo, e anche il mi’ babbo.
04/04/2024
Sono le sette di sera, faccio i calcoli del fuso orario, penso che forse a quest’ora nel sudovest dell’Ucraina hanno finito di cenare – sempre che abbiano cenato nel senso che noi diamo al termine: “se si può, si mangia quando si ha fame: nel frigorifero si trova sempre qualcosa, a casa nostra”. Comunque, decido di scrivere a U.: le chiedo come sta, come stanno i ragazzi. Lei risponde: la scuola di V., le cure mediche per M., tutto come al solito. Mi chiede notizie delle mie “ragazze” e anche su questo fronte non c’è niente di nuovo: per fortuna, forse.
Quella dove vivono è sempre stata una zona tranquilla, per quanto lo si possa essere in un paese in guerra dove morte e distruzione non arrivano dai soldati nemici che accerchiano la tua città ma da missili lanciati ottocento chilometri più a sud, o a est. Le chiedo se ci sono problemi, che nella sintesi dei nostri scambi significa “più problemi del solito”, più paura, più rischio di richiamo dei mariti sotto le armi, più allarmi aerei. “La situazione è tesa perché non sappiamo cosa succedera domani, ma non ci arrendiamo. Tutto costa di più, ogni giorno. Lo affrontiamo”, mi risponde. Passa un minuto: “U. sta scrivendo”. Aspetto, fino a quando non appare il nuovo messaggio: “Tutto andrà bene. Vero?”. Ed è quell’ultima, piccola parola che mi stronca. Perché a milleottocento chilometri di distanza dal mio divano, una donna di quasi quarant’anni, forte, dagli occhi profondi e seri, che cresce due figli inventandosi un lavoro per sopperire a quello perso dal marito, chiede a me di rassicurarla, di dirle che sì, andrà tutto bene, che finirà tutto presto e lei, i suoi figli, le sue sorelle, torneranno alla loro vita di un tempo. Lo chiede come fanno i bambini, “vero mamma, vero papà?”. E come fa un genitore con un bambino piccolo, rispondo mentendo, sapendo di mentire perché l’ultima cosa che si deve togliere a un essere umano è la speranza: sì U., non ci sono dubbi, andrà tutto bene, e quando tutto sarà finito verremo a trovarvi, a mangiare dolci e bere vodka, a guardare i ragazzi e dire “come sono cresciuti”. “Vero?”
28/03/2024
Ieri ero a pranzo dai miei. Una cosa semplice, mi aspettava un pomeriggio di lavoro e loro sono anziani (piuttosto anziani) e non mangiano né tanto né elaborato. E insomma, mentre mangiavo quel piatto di linguine sono stato trafitto dalla consapevolezza che arriverà un momento in cui quel sapore non potrò più gustarlo. Mangerò – come ho mangiato mille e mille volte in passato – cose più buone, anche molto più buone: ma mai più quelle, quei quattro o cinque piatti che hanno il timbro di mia mamma, con i quali sono nato, cresciuto e invecchiato, che potrei riconoscere a occhi chiusi in qualsiasi posto e in ogni momento. Mi è venuta una malinconia indicibile, e infatti non l’ho detta. Ho finito il piatto, e ho chiesto se fossero avanzate un paio di forchettate.
|
|
|