Lontano da dove
La condizione di emigrante, o di figlio di emigrante, è ancora piuttosto comune in questo paese.
Per quanto mi riguarda, ho la famiglia sparsa in mille rivoli: Milano, provincia di Piacenza, provincia di Pisa, Brescia, Torino. Alcuni di questi rivoli sono tornati “a casa”, in Sardegna; non prima di aver toccato il Canada, il Lazio, la Germania. Per capirci, non ho un parente che sia uno da andare a trovare al cimitero. Se voglio farlo, devo prendere l’aereo; così come mia madre e mio padre.
Ecco, i miei genitori.
Non hanno lasciato il paesino sardo con il sorriso sulle labbra. No, non direi. Ma l’hanno lasciato con una speranza concreta. Andare a cercare una vita migliore. A quei tempi (tra il 1950 e il 1960), si poteva. Sì, certo, la discriminazione (non si affitta a meridionali), una lingua sconosciuta (a Milano, nel ’60, non erano in molti a parlare l’italiano), il clima ostile (mica come adesso: la nebbia, allora, era una cosa seria), e molte cose strane tutt’intorno (mia nonna, messa di fronte alla scala mobile della Stazione Centrale, proruppe in una risata omerica; quando si riprese, riuscì a chiedere a mia madre: “e itt’este custa colora?” – “e cos’è questa biscia?”)
Ma c’era un lavoro, c’era il lavoro, c’era lavoro per tutti.
E si trovava casa: casa popolare, ma erano tre locali e servizi. Con l’ascensore, e la cantina, e la strada asfaltata.
Con qualche anno di risparmio, si poteva comprare la Cinquecento, o la Lambretta. Si potevano comprare i dischi di Celentano, e si poteva andare al cinema a vedere Gassman e i soliti ignoti.
Si potevano fare tante cose, non ultima quella di darsi una dignità. Si poteva avere una speranza.
Oggi, chi lascia casa propria, chi parte dalla Locride o da Ponticelli, questa speranza non ce l’ha più.
Siamo la settima nazione più ricca del mondo.
Repubblica.it
November 15th, 2004 at 15:38
Eh… da giovane sono stato emigrante anch’io.
November 16th, 2004 at 00:35
Posso abbracciarti?
Bene, ora che ti ho abbracciato, per questo post, ti racconto che qualche tempo fa, un mesetto giù di lì, passai un’ora interessante in una domenica pomeriggio sfaccendata guardando un’inchiesta su Rai 3. Si chiamava “W gli sposi” e seppur in maniera un po’ forzata, rappresentava una bella idea.
Con la scusa di parlare di matrimoni, si mettevano a confronto due realtà diverse. Due Italie lontanissime. Il paese di chi si sposa con il ricevimento sfarzoso e il macchinone e i bei vestiti e il paese di chi “mi sposerei ma come faccio, forse se mi prolungano il contratto”. Il paese di chi può spendere. E il paese di chi non sa se arriverà a fine mese senza andare in rosso.
Nel secondo paese, erano in tanti gli emigranti “recenti”, quelli che lasciano casa per trovare lavoro. Ma, questo è il punto, non lo fanno per darsi una speranza per il futuro. Ma per trovare una scappatoia al loro presente.
Case di proprieta? Università per i figli? Progetti per i prossimi 10 anni? Niente di tutto questo.
Ditemi voi se è un paese che va avanti o va indietro.
Ti abbraccio di nuovo, se non ti dispiace.
November 16th, 2004 at 09:36
Abbraccio ricevuto e ricambiato.
Ricordo di aver visto anch’io un pezzo di quel programma. Mi venne una malinconia difficile da descrivere; alla fine, conclusi che, se le cose non cambiano in meglio – e, francamente, non sarei così ottimista – mi devo augurare un futuro da emigrante per mia figlia.
Dove? Oggi non lo so. Ma lontano da qui.
November 16th, 2004 at 11:20
Se posso sugerire, la Nuova Caledonia, per me, è sempre stato nome d’altissima suggestione (e nemmeno so dove sia)
November 16th, 2004 at 11:21
l’anonimo essendo, mi pare, il sottoscritto
November 18th, 2004 at 09:02
Il passato, da dove meno te l’aspetti
Non avrei mai letto quest’articolo, se non fosse stato segnalato da Squonk. Parla di un’Italia nascosta, quella dei quasi poveri, che non fa chiasso perché riesce a sbarcare il lunario