Il dipendente
In principio fu Beppe Grillo: i politici sono nostri dipendenti, diceva e scriveva ogni volta che ne aveva occasione. E quindi, devono fare ciò che gli diciamo: non è forse questo, il vero significato della parola “democrazia”? Potere del popolo, esercitato pro tempore e su mandato da alcuni soggetti, in nome e per conto di molti altri.
Poi, però, quella posizione è stata fatta propria da altre persone, solitamente – per stile personale e per ruolo sociale – più misurate e meno tribunizie di Grillo nell’espressione delle loro opinioni. Salvatore Bragantini, ad esempio: ex commissario Consob, amministratore delegato di Centrobanca, editorialista del “Corriere della Sera”, proprio sul foglio di via Solferino ha scritto, riferendosi ad Antonio Fazio: “sarebbe giusto dire una parola di verità, oltre che al prevosto, anche agli italiani, dei quali era un dipendente”.
In sè, l’idea non è nè nuova, nè intrinsecamente del tutto errata. Però, abbeverandosi a queste fonti, il palato avverte retrogusti di demagogia e populismo che lasciano perplessi. Ci si lamenta a ogni piè sospinto dell’inadeguatezza della classe dirigente nazionale, ma al tempo stesso si derubricano concettualmente i suoi componenti a meri esecutori, dai quali si pretende solo zelo e onestà. Non che queste siano prerogative trascurabili, ma ci si chiede se questo paese, a destra come a sinistra, vuole davvero avere dei leader, con i quali avere un rapporto dialettico ma ai quali lasciare onori ed oneri di scelte autonome, possibilmente originali e frutto di una visione del mondo e del futuro.
L’esperienza insegna al cittadino italiano che troppo spesso la classe dirigente, e quella politica in particolare, riesce ad agire senza accollarsi le dovute responsabilità; ma la diffidenza che fa parte del patrimonio genetico nazionale non giustifica il considerare chi dovrebbe essere e fare il leader della comunità alla stregua di un travet dalle-nove-alle-cinque: di Fantozzi ce ne basta – e avanza – uno.