Nel nome del padre
[Attenzione, post reazionario]
Chi legge questo blog da abbastanza tempo sa che, sia per convinzione che per affetto, il titolare guarda con simpatia (e, ripeto: affetto) alle persone in divisa. E il ricordo della banda della Uno bianca o quello del Piano Solo o della caserma Diaz serve – se ce ne fosse bisogno – a non cadere nella trappola delle idealizzazioni infantili, ma a rendersi conto, solo e semplicemente, che nessuno è perfetto.
Ogni tanto vorrei cedere alla tentazione del qualunquismo, della rozzezza da bar sport o da studio televisivo, vorrei sfogarmi e, dopo aver letto e sottoscritto parole come quelle di Gianni Mura su Repubblica (è triste ma non casuale che il paese che nel calcio è campione del mondo debba ritrovarsi a piangere morti, a fare minuti di silenzio sviliti dagli applausi, a contare feriti come fosse in guerra. In guerra è come ci fossero, e non da ieri, da troppi anni, quelli che hanno una divisa e rappresentano uno Stato, mandati per quattro soldi a controllare la demenza di gente che quello Stato dileggia, non solo le minime regole di convivenza civile, e più è impunita più si fa forza) gridare senza vergognarmi “accerchiate le curve, prendeteli tutti, sbatteteli dentro e buttate via le chiavi”.
Non lo faccio, macerandomi ancora un po’ il fegato, solo perchè faccio appello all’intelligenza, alla sensibilità, all’educazione, al rispetto di alcune semplici (ma quanto?) regole di base della convivenza civile. Tutte cose che mi sono state insegnate da una casalinga figlia di contadini, e da suo marito, un appuntato dei carabinieri: un uomo che nel 1954 fissava con il binocolo i cannoni di Tito puntati contro Trieste e Gorizia; un uomo che nel 1968 stava in piazza a farsi diciotto ore di servizio di cosiddetto ordine pubblico; un uomo che qualche mese fa è andato allo stadio insieme al figlio, e non riusciva a nascondere il suo imbarazzo nel sentire gli intellettuali della curva della sua squadra del cuore fare il verso della scimmia e dare del figlio di puttana ai due giocatori migliori della squadra avversaria. Di quella sera, al figlio – a me – rimane il bel ricordo di una serata spesa da solo con il padre, e la piccola, silenziosa lezione di quell’imbarazzo da libro Cuore, o da appuntato di un tempo rimasto intrappolato nell’album delle fotografie di famiglia.
PS – Chi legge questo blog sa, oltre a quanto sopra, che qui non si amano i trucchetti grafici. Oggi vi capita di leggere alcune parole in grassetto: uno strappo alla regola, ma quando ci vuole ci vuole.
PS2 – I commenti, al solito, sono liberi. Mi aspetto, quindi, la consueta apologia di Carlo Giuliani.