Mentre passiamo sopra le mesas di Tarragona ho tra le mani un libro di Riszard Kapuscinski; sulle pagine leggo le descrizioni della lussureggiante natura africana – le foreste del Congo, le spiagge del Dahomey (buon Dio, il Dahomey: non esiste più, credo, come la maggior parte degli stati raccontati in quel libro) – ma dal finestrino vedo questo sconfinato tavolo di terra rossiccia, che in alcuni punti diventa di un carminio strano, come di una pelle bianca scottata dal sole. L’aereo scende verso Barajas, e più si avvicina meglio si vedono le autostrade che tagliano l’altopiano pietroso come incisioni nel Das, e un incongruo fiumiciattolo che costeggia l’aeroporto. Percorriamo la pista, il tetto del terminal ricorda la parte superiore della bocca dei Rolling Stones, in lontananza si vedono quattro enormi grattacieli schizzare verso l’alto emergendo dalla terra piatta dell’altipiano. Chiudo il libro.