Una semplice domanda
Sono seduto su questa poltrona da forse due ore. Mi sono svegliato all’alba, dopo aver dormito molto poco, come al solito; ho sollevato piano il piumone, sono scivolato fuori dal letto, mi sono vestito al buio senza fare rumore e sono uscito nella luce incerta del mattino nella campagna danese. Mi sono girato a guardare la fattoria, poi ho iniziato a camminare nel prato, guardando il vapore del respiro prendere forma nell’aria fredda di questo rantolo di agosto scandinavo e ascoltando null’altro che il silenzio perfetto della solitudine. Non so per quanto tempo ho camminato: non porto l’orologio e la batteria del palmare aveva già esalato l’ultimo respiro. Sono rientrato in casa quando le mani hanno iniziato a perdere sensibilità per il freddo, ho attraversato leggero il grande salone, sono entrato nella camera e mi sono affondato nella grande poltrona piazzata a un metro o due dal letto. Ho ascoltato il suono ovattato del suo respiro nel sonno, ho adattato le pupille al filo di luce che passa dalla giuntura delle due pesanti tende e l’ho fissata per un tempo infinito, i capelli castani lunghi e mossi, le labbra piene, la larga canottiera bianca che fa intravedere il seno. Non ha mai cambiato l’espressione del volto, cristallizzato in quello che mi immagino essere una specie di sorriso – e chissà invece cos’è. Mi sono dimenticato della notte passata, aspettando che fosse giorno anche per lei. Mi è sembrata di una bellezza quasi dolorosa. Ora, finalmente, si sta svegliando; si muove lentamente, si gira pigra, piega e poi stira le gambe. Mentre si volta verso la poltrona sulla quale siedo, preparo un sorriso e una frase che contenga la dolcezza del buongiorno e la voglia del non alzarti e fammi posto sotto quel piumone; lei mi guarda con un’espressione indefinibile, frena a stento uno sbadiglio, si passa una mano tra i capelli: poi si appoggia su un gomito, e mi dice con la sua voce roca: “E tu, chi sei?”