Greetings from Las Vegas – 11. ‘Cause you might enjoy some madness for a while
Non ricordo di essere stato tanto male in una città come a Las Vegas. Un male quasi fisico, come essere risucchiati nel vuoto e sapere di non avere speranza. E invece.
Invece finisce che lascio la Strip, rientro in albergo, passo tre ore a rodermi e poi esco di nuovo.
Vado da Hooters. Hooters è una garanzia, è il posto dove mi sento a casa: Good food, cold beer and Hooters girls never go out of style, recita il claim della catena. E’ vero. Una delle ragazze mi chiede se, essendo da solo, mi va di sedermi al bancone. Non chiedo di meglio, è il posto migliore. Vai, ti siedi sullo sgabello, ordini; poi hai solo l’imbarazzo di quale schermo guardare – Dallas che pareggia all’ultimo secondo con Arizona, i 49ers che perdono di brutto una partita già vinta con Philadelphia – e intanto ti sporchi le mani come un bambino con le chicken wings e bevi litri di birra fredda e ridi e gridi con i tifosi “c’m on, c’m on”. Non ti devi nemmeno preoccupare di non far sostare troppo gli occhi nella scollatura di Romei, nella sua quarta abbondante, perchè lei ci è abituata (Hooters girls never go out of style) e tutti giocano con questa cosa – le ragazze si guardano ma non si toccano, e tutti si divertono, e io da Hooters non uscirei mai.
Ma alla fine le partite finiscono, e io finisco il mio lunner (non so se esiste il termine, ma non so come chiamare un pranzo che finisce alle cinque del pomeriggio, e che sicuramente sostituirà la cena). Esco, e faccio quello che avrei dovuto fare da tempo, quello che faccio sempre e che funziona ogni volta: devio. Scarto. Vado a vedere i gazebo che stanno nel parcheggio tra il Tropicana e Hooters. Ci sono passato ieri, ma di fretta. Oggi vado piano, ciondolo, mi fermo. E’ il World Championship Chili Cookoff, organizzato dalla International Chili Society. Gente pazza per il chili, che viene da ogni parte degli Stati Uniti, e passa qui un weekend a cucinarlo, a farlo assaggiare, a scambiarsi segreti, ricette, aneddoti. Giro fra gli stand, mille volte più ruspanti, veri e divertenti del più bello dei negozi del Venetian. Mi ammazzo la bocca con un assaggio – this is very hot, are you sure? – e mi fermo ad ascoltare il concerto. C’è il cielo azzurro, l’aria fresca, la birra in corpo. Non so come spiegarlo, passano da un medley di pezzi che non conosco a una versione trascinante di Mustang Sally a Sweet Home Alabama e siamo tutti contenti come bambini, i bicchieri in mano, i piedi che battono tenendo il tempo. Poi fanno Purple Rain, e io rimango a guardare questi sessantenni che conoscono The Artist Formerly Known As Prince che cantano I only wanted to see you bathing in purple rain, come se mia madre fischiettasse, non so, i Subsonica. Ma non è finita. No. Ci sono i bis. E insomma, il frontman attacca un blues che conoscono tutti tranne me, chiede alla gente di seguirlo, di cantare insieme il ritornello, ed è una canzone di una bellezza che si fa fatica a spiegare, ha delle parole semplicissime, tutti insieme cantiamo I’m so in love with you honey e alla seconda volta ci sono un padre vestito da cuoco e la figlia, e lui sta seduto sull’asfalto e tiene la bambina in braccio come se fosse la sua damigella e cantiamo tutti per loro due e a me viene da piangere perchè penso a mia figlia e la vorrei far ballare sussurrandole I’m so in love with you honey, vorrei farlo in quel momento preciso, a Las Vegas, Nevada, e farla vedere a tutti e tutti canterebbero per noi. Per fortuna la canzone finisce, e con uno scarto pazzo e provvidenziale la band parte con un vecchio pezzo di Billy Joel, You May Be Right – e io la so, la so tutta, come la sanno le altre centinaia di persone che stanno in un parcheggio a godersi il momento, e cantiamo tutti, Oh, turn out the light, Don’t try to save me, You may be wrong for all I know but you may be right. Si cancella tutto, si cancellano i falsi ponti di Rialto, le finte torri Eiffel, le slot machines, le puttanelle di buona famiglia, i galeoni dei pirati, i daiquiri: questa è l’America, e valeva la pena fare venti ore di viaggio per guardare un padre ballare con la figlia e saltare sui quattro quarti indicando con l’indice il chitarrista e gridargli Yes, You. Scartare, deviare, lasciarsi alle spalle il patinato, camminare sull’asfalto ruvido, birra e rock ‘n’ roll, come un vaccino. Ogni sorso una boccata d’aria, riempi i polmoni e vai avanti.