La vita delle fiere è fatta così: si parla, si parla, si parla. How are you doing, come stai, quanto ci impieghi per arrivare, a che punto è quel progetto di client scoring, come sei messo con le consumer list ungheresi, sai che sono venuta in Italia quest’estate, facciamo scadere il contratto e poi cambiamo le condizioni. Così, per ore, dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio. Poi, alle sei si riprende, i drink negli alberghi, i party, le reception di quell’azienda e quell’altra associazione. Networking si chiama, un Facebook dal vivo che continua per giorni e giorni. Da una parte è bello, conosci gente nuova, ritrovi persone che nel corso del tempo sono diventate amiche (quest’estate ero in giro nella Foresta Nera, e mi sono detto “beh, Stephan sta a quaranta chilometri da qui, adesso lo sento e se è a casa ci facciamo una birra insieme”, ed è quello che abbiamo fatto), scopri cose che non sapevi di gente che frequenti da tempo (non avrei mai detto che Susan, con la sua grinta da Raffaella Carrà della Pennsylvania, è per un quarto ucraina, un quarto ceca e metà polacca: nulla di che, ma mi fa stranezza pensarla come europea). Alla fine, non credo che cambierei il mio lavoro proprio per questa parte di contatto umano. Eppure c’è che alla fine ogni cosa ti stanca, c’è che vedi la polvere sotto il tappeto persiano, c’è che quando Sarah mi manda una mail chiedendomi se would you like to join us on Tuesday dico di sì non perchè ho voglia ma perchè devo, che qui le giornate lavorative non finiscono alle sei di sera ma alle due di notte – networking si chiama. E insomma non ho nessuna voglia, ma alle otto e mezza – quando vorrei essere al bancone di Hooters a bere birra ghiacciata guardando le Conference Series e allora sarei un uomo felice, ma felice davvero – mi presento nel mio dress code d’ordinanza, il business casual di queste occasioni, sorridente al piano bar del Bellagio. Stringo mani, mi presento, yes I live in Milan, when you’re heading back home, sorrido. Lavoro. E lo faccio bene, anche. Ma tu, per piacere, non venire a dirmi pensa a quelli che stanno sempre a Milano, pensa a me che non mi muovo mai; perchè, anche se io non farei mai il cambio con te, ho tutto il diritto di dire che anche se lo so benissimo che un sacco di gente vorrebbe essere al mio posto e anche se lo so benissimo che mi capiterà di dire “guarda, non hai idea di cos’è il piano bar del Bellagio” e anche se lo so benissimo che non mi dispiacerà stare su quei divani a bere vino bianco, vorrei semplicemente essere da un’altra parte, l’Old Fox di Piazza Sant’Agostino o un autogrill sulla Milano-Varese o il vecchio ristorante di Christoph sopra Merano o la stube bollente di Spitzingsee, che anche quello era lavoro ma non sembrava – e forse a quel punto non lo era più. Qui tu, come cento, come mille altri – ne è piena la Strip – ti divertiresti; non per la compagnia (anzi: forse, nonostante quella), ma per la musica, i drink, i colori, un LP che va a 45 giri, una drum machine a 130 battiti al minuto. Ma io non mi riempio così. E al Bellagio ci sono io, senza pensare a chi non si muove mai da Milano: sorry babe, that’s life – la tua, la mia, quella di tutti.