Half a mile away
E’ piena di gente, l’Università. Anche se è sabato, è piena di gente. Liceali invitati a fare un giro in quel che potrebbe essere il palazzo nel quale passeranno i prossimi cinque o sei anni della loro vita, laureandi in toga che finiscono oggi quegli anni, madri in tailleur, padri in cravatta, fratelli nel loro miglior personal dress code. Mi guardo intorno un po’ smarrito, non metto piede in via Bocconi da almeno dieci anni ed è tutto diverso, mi perdo, chiedo indicazioni, ritrovo le strade ma non i luoghi. Guardo l’orologio, considero il traffico, mi rimetto in macchina. La mia Università non è mai stata un tempio di sfarzoso fighettismo, nemmeno ai tempi della Milano da bere, nemmeno ai tempi dei diciottenni vestiti da manichini dei Grandi Magazzini Publitalia, blazer blu pantaloni grigi scarpe di cuoio inglesi valigetta rigida e Sole 24 Ore sotto braccio, uno come me che veniva da una famiglia padre carabiniere e madre casalinga poteva riuscire a non sentirsi a disagio. E in effetti, non mi sono mai sentito a disagio, se non in rarissime occasioni. Percorro i trecento metri che mi portano alla circonvallazione, svolto a destra, vedo un assembramento di persone sul marciapiede e macchine in doppia fila. Rallento, butto un occhio. E’ la sede della Società del Pane Quotidiano, la sede storica di Viale Toscana 28; vedo bambini, molte donne con il velo, un pezzo di mondo che si muove da diecimila chilometri di distanza per trovarsi a chiedere pane e yoghurt qui, ai bordi della presunta ricchezza di Milano. Vedo anche facce più conosciute, vedo giacche lise che una volta portavano i loro padroni a passare otto ore in un ufficio, vedo pensionati o impiegati che hanno perso il lavoro, o che non arrivano alla fine del mese con quel che guadagnano, vedo mie fotografie, vedo me stesso in fila con gli occhi bassi a dire grazie a qualcuno che mi ha permesso di scavallare un’altra giornata. A trecento metri si festeggiano le lauree e si pianificano futuri volutamente radiosi; a trecento metri si prova a tirare sera. Passo oltre, il semaforo è ancora verde, accelero. Spengo la radio.
November 10th, 2008 at 11:59
Il casino è che non è nemmeno più una questione di “società dei garantiti” VS. “non garantiti”, è molto peggio e più complesso.
(mi piace molto questo post, Sir)
November 10th, 2008 at 12:08
Caro Tovarich’, ha ragione. Il problema è proprio quello. Poi, c’è un aspetto “estetico” per così dire, quello della vicinanza fisica della povertà (o di quello stato che molto le assomiglia) e della ricchezza, e del contrasto brutale che si viene a creare nei tuoi occhi nel giro di tre minuti e trecento metri. Ah: complessità per complessità, ci sarebbe da parlare di ciò che sta dietro alla patina luccicante di luoghi come Bocconi, Politecnici assortiti, Luiss e via dicendo. Che anche lì ci sono sacrifici, e non pochi, e sostenibili chissà per quanto.