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28/02/2009
Ci sono poche cose tanto allegre e al tempo stesso tanto tristi quanto i coriandoli di Carnevale.
27/02/2009
Succede che scrivi senza pensarci su più di tanto, butti giù 670 parole rileggendole velocemente giusto per non lasciarci dentro troppe ripetizioni, poi clicchi “Publish” e ti dedichi ad altro.
Succede che qualche ora dopo realizzi di aver scritto una frase che ha lasciato un segno un po’ meno effimero del solito – qualcosa che arriverà a domani, cosa che in questi tempi di social network parolai è davvero grasso che cola.
Succede che quella frase (“Non ha fatto carriera ma non se ne è mai fatto un problema, perché per lui il lavoro era ciò che forse dovrebbe essere davvero per chiunque, qualcosa che ti permette di uscire a bere con gli amici senza obbligarti a chiedere i soldi a tua madre, e poi ti consente di farti una casa, magari di sposarti, comprarti un’utilitaria per andare a fare una grigliata in riva al Ticino, far studiare i figli, avere qualche hobby, arrivare al venerdì sera stanco ma con la mente sgombra: uno strumento per essere dignitosamente felice, insomma; o almeno per scansare la fame.”) non è quella nella quale hai creduto di aver messo il meglio, di essere stato più netto e soprattutto sincero (“un’espressione non felice ma rilassata, appena velata dalla malinconia datagli dal pensiero della figlia minore che non riesce a rimanere incinta.”) e ancora una volta ti rendi conto che il senso alle tue parole non lo dai tu, ma lo danno gli altri, il che – a ben vedere – è una bella lezione di umiltà.
Per costrizione o per volontà, tutti noi che ogni mattina ci laviamo e ci pettiniamo e ci tiriamo su il bavero del giaccone e camminiamo come automi lungo i marciapiedi ancora ghiacciati e arriviamo alla fermata della metropolitana senza notare gli ultimi graffiti che i writer di periferia hanno lasciato sui suoi muri blu e sporchi, tutti noi abbiamo qualcosa da fare. Andiamo in ufficio, andiamo a scuola, andiamo incontro a quel qualcosa che dovrebbe riempirci la giornata e dare un senso al nostro tempo dall’ora di colazione a quella di cena. Lui no. Lui è il pensionato giovane, è quello che ha iniziato a lavorare non appena terminata la scuola media, e anche se un padrone disonesto non gli ha versato due anni di contributi è riuscito lo stesso ad andare in pensione ben prima di arrivare a compiere sessant’anni. Ha fatto il garzone di un negozio di ortofrutta e l’apprendista in una tipografia, ha passato qualche mese dietro a un tornio in un’officina meccanica, ha visto il padre morire giovane per un infarto; pochi giorni dopo il funerale un prete magnanimo ha messo una buona parola per lui, e quella parola è passata da un orecchio ad un altro facendolo passare dal tornio all’ufficio posta di una compagnia di assicurazioni, la stessa dove ha trascorso i successivi trentaquattro anni lavorativi. Non ha fatto carriera ma non se ne è mai fatto un problema, perché per lui il lavoro era ciò che forse dovrebbe essere davvero per chiunque, qualcosa che ti permette di uscire a bere con gli amici senza obbligarti a chiedere i soldi a tua madre, e poi ti consente di farti una casa, magari di sposarti, comprarti un’utilitaria per andare a fare una grigliata in riva al Ticino, far studiare i figli, avere qualche hobby, arrivare al venerdì sera stanco ma con la mente sgombra: uno strumento per essere dignitosamente felice, insomma; o almeno per scansare la fame.
Il pensionato giovane si è sempre mantenuto in forma, il tennis grazie al Cral aziendale, la bicicletta per scavallare i colli della Brianza in compagnia degli amici del palazzo di edilizia popolare dove è andato ad abitare insieme ad altre centomila persone, trasformando nel breve arco di otto mesi una zona di cascine e fontanili in un formicaio postmoderno, immerso nella nebbia spessa della Milano degli anni Sessanta. Oggi che non deve più andare in ufficio, si gode il suo tempo sbrigando commissioni per quei figli che dicono di non avere nemmeno il tempo per respirare, figurarsi per andare all’anagrafe a fare uno stato di famiglia, prendendo la metropolitana per andare al mercatino dei francobolli e far poi due passi in Piazza Duomo, sbuffando perché deve tornare a casa in tempo per non far aspettare il nipote adolescente che oggi arriva un’ora prima perché manca l’insegnante di italiano.
Io so tutte queste cose di lui perché il quartiere dove vivo è più grande di molti capoluoghi di provincia, ma in fondo è un piccolo paese dove dopo trenta o quarant’anni ci si conosce tutti – e se ad una faccia non colleghi una storia c’è sempre qualcuno che quella storia la conosce, o di persona o perché gliel’ha raccontata la vicina di casa o il barbiere o il genero della vedova del settimo piano. Ma le saprei comunque, perché certe storie sono disegnate in faccia a chi le ha vissute, e il pensionato giovane ha un’espressione che nessuno di noialtri che ci pigiamo dentro il vagone può avere, un’espressione non felice ma rilassata, appena velata dalla malinconia datagli dal pensiero della figlia minore che non riesce a rimanere incinta. E’ come se rilucesse tra noi condannati, salvato tra i sommersi che arriveranno anche loro alla pensione, ma troppo tardi e troppo stanchi per godersela. I sommersi siamo noi, e lo sappiamo, e ingoiamo fiele ogni volta che il pensionato giovane ci fa compagnia per quindici fermate, lasciandoci poi entrare a testa bassa nei nostri recinti mentre lui va a vedere le quotazioni di una serie di francobolli francesi.
24/02/2009
Nulla da dire sull’intervista che Pippo Civati ha rilasciato a Repubblica: bene, bravo, bis. C’è una sola cosa che non mi convince, ed è questa: “Ho letto che Franceschini e Bersani attaccano chi pretende di far politica coi blog. Pretende? Per la mia generazione è l’unico modo di fare ancora politica. Che dovremmo fare? Andare in sezione? A Milano la sede del Pd non c’è neppure“. Ecco, non sarebbe il caso di farne una?
Repubblica.it, Ciwati
[Leggo sul blog di Civati che il nostro non avrebbe mai pronunciato la battuta sulla sede. Non dice però se è davvero convinto che per la sua generazione il web sia davvero l’unico modo di fare politica. Io non credo che lo pensi, ma non è così chiaro. Comunque: bene, bravo, bis]
23/02/2009
E i Pan di Stelle stanno a guardare.
21/02/2009
La segretaria anziana ha una cinquantina d’anni, forse cinquantacinque. Deve avere iniziato a lavorare subito dopo il diploma – chissà, forse una di quelle scuole di segretariato o di avviamento al lavoro che hanno tirato su un paio di generazioni, e delle quali oggi sentiamo la mancanza, anche se non lo diciamo in giro. La incontro ogni mattina da non so più quanto tempo, ma è una cosa che ho realizzato solo da poco: perchè la segretaria anziana è così, invisibile ma presente, con i suoi tailleur sobri e dai colori sfuggenti, il caschetto di capelli corti e ordinati, le scarpe mai di moda e mai demodè, il tacco né alto né basso, il trucco appena accennato. Non la noti insomma, fino al giorno in cui un evento straordinario – la febbre a quaranta, la morte della madre – la tiene a casa e tu rileggi quattro volte la stessa riga della Gazzetta perché non riesci a concentrarti, c’è qualcosa di strano che non riesci a spiegarti, il vagone della metro è lo stesso di ogni giorno (il primo in testa al treno), l’orario è lo stesso da dieci anni a questa parte (quello che ti permette di timbrare il cartellino un minuto prima che il capufficio ti squadri come se fossi un criminale di guerra), eppure manca qualcosa, anzi manca qualcuno e quel qualcuno è la segretaria anziana, e finisce che ti preoccupi per lei anche se non la conosci, ti chiedi cosa mai sarà successo perché non è proprio da lei non essere al suo posto. Immagino che tutta la sua vita sia così, una presenza discreta ma indispensabile, una specie di mulo capace di ogni fatica, spinta da un senso del dovere inculcatole fin da bambina, sorretta da quella dignità senza superbia che trovo in mia madre ma non più in me stesso. La segretaria anziana è il collante, quella su cui chiunque può contare, affidabile, precisa, instancabile: ma non una schiava senza cervello. E’ una donna che, ne sono certo, parla poco: non l’ho mai vista scambiare quattro chiacchiere con chicchessia, sul vagone della metro. Ma sono altrettanto certo che quando apre bocca lo fa a ragion veduta, è quella capace di dire la parola che tutti avevano sulla punta della lingua e nessuno era capace di esprimere, e il bello è che è così da una vita, e da una vita tutti continuano a stupirsene. Mi rendo conto che non riesco a vederla che così, una macchina umana seria e intelligente: ma chissà se ha un marito, se ha avuto un amore folle che le ha tolto il respiro e l’appetito, se ha mai fatto sesso con uno sconosciuto dopo una sbronza feroce, se le capita di guardare il telegiornale e di sentire voglia di tirare un piatto verso lo schermo, se ha mai litigato sul pianerottolo con la vicina di casa dandole della puttana. Forse sì, ognuno ha il proprio lato oscuro, ognuno ha il proprio scheletro nell’armadio. Ma voglio credere che la segretaria anziana, di cui oggi qualcuno si renderà conto di non conoscere nemmeno il nome di battesimo dopo sette anni di lavoro in comune, sia diversa da tutti gli altri perché non puoi dubitare della solidità delle fondamenta della baracca se vuoi continuare ad abitarla senza perdere definitivamente il sonno per la paura che tutto crolli.
20/02/2009
La mia incrollabile e quasi fideistica fiducia in Massimo D’Alema è andata scemando nel corso del tempo, un po’ perchè nessuno è perfetto, un po’ perchè – tempo fa – ho intrapreso e portato a termine l’interessante lettura di “Compagni che sbagliano” (*) di Andrea Romano, un po’ perchè – come cantava Vasco Rossi mille anni fa – “è che alla fine ogni cosa ti stanca, tutto qui”. Il fatto è che lui sarà anche lo scorpione descritto da Giuliano Ferrara ma a sinistra, in quell’agglomerato laocoontico che ha cambiato tanti nomi quanti Prince durante la sua onorata carriera non sono ancora riusciti a trovare uno più scorpione di lui, uno capace di resistere al veleno inoculatogli e fare la sua battaglia e vincerla, uno capace di parlare e convincere, che l’emozione viene e va e la ragione alla fine resta. Lo dico da dalemiano non ancora del tutto pentito: datemi uno che sia meglio di lui. Tiratelo fuori dal cilindro, e in fretta. Oppure, appunto, ridateglielo ‘sto partito, e ne faccia quello che vuole, che di mezze calzette e pallide controfigure ne abbiamo pieni i santissimi.
Wittgenstein
(*) Un lettore mi fa gentilmente notare che il titolo del libro di Romano è “Compagni di scuola” – immagino di dover interpretare il mio errore come un lapsus freudiano.
Questa mattina mi son svegliato, e per un momento ho rimpianto i DS. Per dire come sto messo, eh.
19/02/2009
Non so se può essere definito come un atteggiamento schizofrenico, ma mi rendo conto di avere fiducia nelle persone e di non averne nella società.
15/02/2009
Per due settimane sono saliti sul vagone della linea rossa tenendosi per mano, senza dire una parola, spalla contro spalla. Quindici, sedici anni al massimo. Lui alto, magro, con i piedi esageratamente lunghi, la giusta quantità di brufoli, i capelli che puntano verso tutti i punti cardinali, l’andatura dinoccolata di un ragazzo che cresce troppo in fretta. Lei più piccola, belle forme, truccata con cura ma senza esagerazioni, la pelle liscia figlia della fortuna e di una madre che non lesina i biglietti da cinquanta euro per le creme della sua bambina. Ho notato lei, per prima, perchè ha qualcosa che la distingue dalle decine di sue coetanee che ogni mattina che Dio manda in terra affollano la metropolitana andando ad annoiarsi in un qualsiasi liceo della metropoli. Sarà che non è trasandata e nemmeno incongruamente elegante, sarà che il suo zaino non è ricoperto di TVB e pupazzetti, non lo so; ma ha qualcosa di particolare, e ce l’ha addosso ma anche dentro. Poi ho guardato lui, una ruota di scorta fatta adolescente con l’acne, e mi ci è voluto molto poco per capire che si sente tanto fortunato quanto inadeguato, che si chiede come sia possibile che lei lo abbia scelto – perchè sono sempre le ragazze a scegliere, e per lui questa è la prima volta e ha una dannata paura che sia anche l’ultima.
Per due settimane li ho guardati conquistarsi una posizione dentro il vagone, mettersi uno di fronte all’altra e baciarsi per undici fermate senza una pausa, senza un respiro, senza aprire gli occhi, indifferenti al mondo, ai loro compagni di classe, agli impiegati, alle commesse, ai cassintegrati. Per due settimane ho fatto fatica a staccare gli occhi da quel movimento costante e implacabile dei loro muscoli facciali, chiedendomi se a casa facessero degli allenamenti per non avere i crampi alla lingua all’altezza della fermata di QT8, per due settimane li ho visti staccarsi quando il treno arrivava a metà del tragitto tra Conciliazione e Cadorna, come se un timer interno li avesse avvisati che di lì a pochi secondi sarebbero dovuti uscire dal vagone, per due settimane li ho guardati riprendersi per mano e sempre senza dire una parola allontanarsi in mezzo alle centomila altre persone che loro fendevano come Mosè nel Mar Rosso. Per due settimane mi sono vergognato di questo mio voyeurismo di seconda mano, per due settimane li ho invidiati con tutte le mie forze, per due settimane ho ricordato i miei sedici anni, i miei capelli lunghi, i miei brufoli, il mio essere ruota di scorta.
Questa mattina lei è entrata nel vagone al solito orario, ed era sola. Aveva le cuffie dell’iPod ben calcate dentro le orecchie, ha montato un’espressione assente e con quella si è preparata al viaggio. Mentre le porte iniziavano la chiusura, ho visto lui che arrivava con il passo lento, i suoi piedoni lunghi e sgraziati che strisciavano sul linoleum della banchina di attesa, gli occhi intristiti che cercavano in giro. Nel momento in cui le porte si sono chiuse del tutto, lui è riuscito a vedere lei. Lei, che dava le spalle all’entrata, non lo ha visto – e se anche lo avesse potuto fare sono sicuro che lo avrebbe ignorato come si può ignorare un sasso, o una foglia morta. Il treno è partito, e mi sono ricordato ancora una volta i miei sedici anni.
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