Me lo ricordo come se fosse adesso, anche se non lo saprei ritrovare. Era la primavera del 1996, e ci capitai per caso. Ero ad Atlanta, avevo una domenica libera e una macchina noleggiata. Mi svegliai all’alba, uscii da Buckhead e presi l’autostrada verso Memphis. Dopo un po’ mi resi conto che non sarei mai riuscito ad andare e tornare in giornata, e feci quel che faccio spesso a piedi: lasciai la strada principale, e iniziai a girare a caso. Ero entrato nel Tennessee, avevo spostato l’orologio per il fuso orario, e mi godevo l’enormità dell’America che toccavo con mano per la prima volta. Non so come, mi trovai di fronte a una high school chiusa per non so quale vacanza; parcheggiai e andai a farmi una camminata, calpestai il prato del campo di football, mi sedetti sugli spalti deserti guardando gli striscioni che incitavano la squadra della scuola. C’era il sole e un silenzio che ritrovai solo molti anni dopo, in una notte di inverno a Vipiteno. Andando a riprendere la macchina mi venne l’idea di fare altri quattro passi, senza nessun particolare motivo; e fu così che mi trovai in questo cimitero, che era un prato verde con le pietre messe probabilmente a caso, sfruttando le zone più lisce. Era un posto pieno di morti, e vivo al tempo stesso, come sono tutti i cimiteri a pensarci bene. Rimasi un po’, decisamente a lungo in considerazione di quanto era piccolo – un microscopico cimitero di un piccolo paese della profonda provincia americana – e rimasi semplicemente a godermi l’atmosfera. Poi, altrettanto semplicemente, uscii dal recinto ideale – c’era giusto una staccionata, e nemmeno lungo tutto il perimetro -, risalii sulla mia Corsica e andai verso Chattanooga.
Non so perché racconto questa storia. Forse perché mi piacciono i cimiteri. Non c’è nulla di macabro, spero che sia chiaro: sono posti, come dicevo prima, a loro modo pieni di vita; un po’ quella che viene dalle parole e dalle fotografie sulle lapidi, un po’ quella che ti immagini tu guardando le fotografie dei defunti, i fiori e i piccoli oggetti che gli ancora vivi portano sulle tombe. Ne ho girati tanti, di cimiteri, in molti casi ci sono andato apposta: il First Cemetery di New Orleans, con le tombe degli italiani e della prima moglie del primo governatore della Louisiana, morta giovanissima di parto come mille altre ragazze degli inizi dell’Ottocento; il cimitero di guerra americano di Omaha Beach, con le migliaia di croci bianchissime e il rumore del mare che a qualche centinaio di metri batte il costone di sabbia e roccia; El Camposanto di Old Town San Diego, con le tombe dei ladri impiccati; il Monumentale di Milano, con la storia di una città che non c’è più nell’anima; i prati all’interno dei campi di Dachau e Mauthausen, che ricoprono le ceneri e le ossa di decine di migliaia di prigionieri, quando c’era ancora spazio per seppellirli; i cimiteri di guerra del parco di Trenno a Milano, di Fiesole, e quello di Merano, con le tombe dei soldati tedeschi in pietra più scura e quelle dei soldati italiani in pietra più chiara. Ci vado, nei cimiteri, perché mi piace quella specie di sospensione del tempo che ci si trova dentro, perché mi fermo a pensare o anche soltanto ad ascoltare un po’ di silenzio, perché raccontano dei vivi almeno quanto dicono dei morti.
Forse so perché racconto questa storia; perché oggi è il giorno dei morti, e io accompagno mia moglie nel cimitero dove è sepolta buona parte della sua famiglia; la mia sta dall’altra parte del mare, in quell’isola dove non metto piede da quasi vent’anni. Ho girato tanto, e in qualche modo non sono mai tornato a casa, non ho mai visto le tombe dei miei nonni; sono molti anni che ci penso, sono molti anni che provo a immaginare come sarà quel momento: e chissà come sarà, perché alla fine è tanto più facile vivere la vita degli altri – e anche la morte.
[Dedicato, con affetto, ai miei nonni, e alla Fran]