L’uomo che racconta le barzellette non sta mai zitto. Apre la bocca quando si sveglia e la chiude quando si addormenta, e tra i due momenti della sua giornata inanella una sequela infinita di battute, aneddoti, frasi a effetto – e barzellette. Ha ormai passato l’età per la pensione, e siccome ne ha viste tante, tante ne ha da raccontare: di barzellette, e di storie. Ha sempre una storia da raccontare, un cliente di Pordenone, un cugino della moglie di Melegnano, un direttore tecnico di venticinque anni fa, un’automobile che come quelle non se ne fanno più. Ha sempre qualcosa da insegnare, anche quando dice che lui alla sua età non ha ancora smesso di imparare. Vive nella sua galassia personale, costantemente sopra le righe come un clown e le sue scarpe lunghissime e il suo naso rosso finto, confonde i nomi, importuna le cameriere, colleziona gaffes. Per molti è “un mito”, per qualcuno è divertente come una foglia di ortica; poi c’è un momento nel quale chi vuole può vederlo per quello che è, quando cammina lungo il vialetto che porta al parcheggio e si stringe nel cappotto e mostra tutti gli anni che ha, e risponde al saluto con un “ciao” tanto normale che in bocca a lui sembra quasi dimesso e triste. Basterebbe toccarlo con un dito per far cascare prima la maschera e poi tutto il resto, ma in fondo sarebbe una inutile crudeltà: e allora gli si chiede se è di fretta, se ha cinque minuti di tempo per un caffè.