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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    25/03/2010

    Tutti tutti

    Filed under: — JE6 @ 11:15

    I forzisti tutti fascisti, i napoletani tutti sfaticati, i carabinieri tutti assassini, i negri tutti superdotati, gli uomini tutti stronzi, le donne tutte puttane, i preti tutti pedofili. Via così.
    [Oh, continuate pure voi se volete]

    E per distrarli dalle cose serie

    Filed under: — JE6 @ 08:53

    Questa notte, mentre aspettavo di prendere sonno, mi si è parato di fronte l’uomo-torcia. Aveva i jeans, un giubbotto col collo di pelo come quello di Otto Grunf, e una cravatta verde annodata alla bell’e meglio. Col ghigno del bulletto valligiano si è avvicinato a un muro di scatoloni di cartone – un muro come quello di The Wall, solo una decina di volte più piccolo – e tutto soddisfatto gli ha dato fuoco. Poi si è messo in posa, col pollice ritto da Fonzie padano, fino a quando un paio di pompieri cooptati hanno spento il rogo che ci ha liberati dalla burocrazia.
    In quel momento ho pensato che una tragedia minore ma non meno grave del nostro tempo è la quasi totale perdita del senso del ridicolo: che a volte può essere una scelta, fatta per disperazione e rabbia e frustrazione; ma più spesso sembra essere il danno collaterale di quella deriva fatta di sbracamento e confusione e ignoranza e protervia che vediamo tutti i giorni, un collasso del senso di sè, degli altri, dei ruoli, della comunità. Scanalando, in pochi secondi era possibile trovarsi di fronte a uno dei molti reality girati nel mondo del porno californiano: e nelle ragazze che compilavano il form di presentazione dichiarando di essere disposte a questa o quella pratica sessuale non c’era molta meno dignità di quanta ne mostrasse il Nerone de’ noantri, lanciafiamme in mano e vigili del fuoco al seguito.
    Corriere.it

    Un’ora

    Filed under: — JE6 @ 08:30

    Non era la prima volta che andava nel quartier generale della banca, a Vaduz. Ci era stato molte altre volte, fino a perdere interesse per quel paesino chiuso da una banale autostrada a due corsie per parte, i suoi negozietti di souvenir, i suoi bar da bordello tedesco con le foto di ragazze ammiccanti appese tra un orinatoio a muro e l’altro. Ma questa volta era diverso, era lì sapendo che la convocazione non era stata fatta per fargli i complimenti, ma per consigliargli di cercarsi un nuovo lavoro – e in fretta.
    Si sedette nell’anticamera del grande ufficio del responsabile delle risorse umane, si strinse ancora il nodo della cravatta, controllò di avere le scarpe lucide ma non troppo, mise a posto i polsini della camicia allungandoli al punto giusto oltre l’orlo della manica della giacca. Controllò il palmare: nessun messaggio, nessuna chiamata, nessuna mail. Si guardò intorno, troppo distratto per apprezzare la bellezza dei quadri appesi ai muri. Controllò nuovamente il palmare, e lo fece almeno altre cinque o sei volte durante l’intera ora di attesa che il grande manager lo costrinse a fare, mentre il sudore iniziava a colargli lentamente lungo le spalle, e ogni volta il display rimase muto e buio, con l’unica eccezione della data, dell’ora e delle icone dei servizi. Lo spense.
    Finalmente entrò, ascoltò ciò che sapeva che gli sarebbe stato detto, si alzò, strinse la mano all’uomo che stava dall’altra parte della scrivania e uscì dall’ufficio. Riaccese il palmare, e lo trovò come lo aveva lasciato. Camminò fino al parcheggio, e fece tutto ciò che doveva – salì in macchina, allacciò la cintura di sicurezza, guidò per un’ora fino all’aeroporto, riconsegnò la vettura, fece il check-in, lesse distrattamente un libro, salì sull’aereo, si preparò al decollo. Metodicamente controllò il palmare, fino al momento di spegnerlo all’ordine del capitano: nessun messaggio, nessuna chiamata, nessuna mail. Una volta arrivato a destinazione riaccese il palmare, lo guardò senza sorprendersi fino al momento in cui il taxi lo lasciò davanti al cancello del palazzo dove abitava.
    Per i due giorni successivi guardò quello schermo ogni volta che poteva, con un misto di rabbia e delusione. Fino a quando la trovò nel parcheggio del grande centro uffici dove entrambi lavoravano, che aspettava fumando nervosa e mangiandosi le unghie. Appena prima che lui le dicesse quanto aveva aspettato una sua chiamata in quel giorno difficile, lei scoppiò a piangere e non smise per l’intera ora che seguì, un’ora lunga quanto quella che lui aveva passato ad aspettare nell’anticamera del grande ufficio di Vaduz, pesante quanto quella che aveva trascorso ascoltando quanto era diventato inutile per la banca nella quale aveva lavorato per otto anni. Lei gli raccontò la sua storia, che era una storia come mille altre e però era la sua, la più importante del mondo. Quando ebbe finito lui le toccò un gomito, le disse vieni, lascia qui la tua macchina, ti accompagno a casa, e così fece, guidando in silenzio mentre lei iniziava e finiva un pacchetto di fazzoletti di carta tamponando le lacrime. Poco prima di fermarsi davanti alla casa di lei, lui le disse che due giorni prima era stato licenziato, ma che era riuscito a trovare un accordo per un’uscita onorevole, dalla quale sarebbe riuscito a guadagnare bene. Lei non rispose, e in quel momento lui si rese conto che non le aveva mai voluto tanto bene.