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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    10/04/2010

    Primo giorno di scuola

    Filed under: — JE6 @ 20:09

    Era un giorno dell’autunno del 1985, quando entrai per davvero in Bocconi per la prima volta. Ci ero stato qualche tempo prima per il test di ammissione, ma quel giorno non contava, nessuno di noi aveva tempo e voglia di guardarsi intorno e di illudersi o deprimersi all’idea che superando quell’esame avremmo passato i successivi quattro o cinque o sei anni fra quelle mura. Ma il primo giorno vero, ecco. Non avevo ancora diciannove anni, venivo da un quartiere di periferia sconosciuto alla maggior parte dei milanesi (e la minor parte che lo conosceva lo considerava un dormitorio), non avevo fatto il liceo ma un normalissimo e plebeissimo istituto tecnico commerciale. Ricordo perfettamente che mi fermai di fronte all’entrata dell’università e pensai: “Oddio”. Sono sempre stato abbastanza bravo a mascherare la paura dei posti e delle persone nuove, e a fingere di non sentirmi inadeguato e fuori posto: così mi feci forza ed entrai come se niente fosse. Non ci sarebbero state cerimonie di iniziazione, atti di nonnismo e mortificazioni da scuola vittoriana, questo lo sapevo. Ma erano gli anni della Milano da bere, e non bastava la macchietta disegnata – male – da Sergio Vastano negli sketch di Drive In a prendere sufficientemente in giro quella terrificante armata di non ancora ventenni vestiti come i funzionari di Publitalia – blazer blu con bottoni dorati, pantaloni grigi e scarpe di cuoio inglese, la ventiquattrore rigida e una copia del Sole24Ore sotto l’ascella. Non ci volle moltissimo a rendermi conto che nel tempio dell’educazione capitalista italiana c’era un sacco di gente del tutto “normale”, gente che votava a sinistra – professori e studenti senza distinzione -, gente che usciva a fare due passi per mangiare un panino e tirare due colpi di cinque birilli nella Cooperativa Stella Alpina, gente con famiglie monoreddito, gente che potevi trovare da Buscemi a cercare qualcosa dei Clash. Non ci volle nemmeno moltissimo a rendersi conto che il censo fa differenza, talvolta per educazione, sempre per usi e costumi; lo sforzo più grande di quel primo anno fu non farsi travolgere né dai nomi altisonanti che potevi incontrare in biblioteca o al corso di sociologia di Nando dalla Chiesa né dal desiderio di assimilazione né dall’orgoglio proletario – e se ci riuscii, se ci riuscimmo tutti (o quasi) non fu tanto per merito nostro di giovani pivelli saltabeccanti tra la teoria della concorrenza perfetta e il calcolo degli integrali, bensì per merito di un sistema che ci trattava da pari, o almeno ce lo faceva credere. Avremmo avuto poi tutto il tempo del mondo – il resto della vita – per capire che le conoscenze contano quanto le capacità, che le barriere invisibili sono molto più difficili da superare di quelle ben indicate, e che l’erba del vicino – la vita degli altri, insomma – sembra sempre drammaticamente più verde e brillante: intanto potevamo tentare un tre sponde col taglio a tenere, e tornare a casa in metropolitana senza sentirci né degli eletti né dei paria, e oggi questo non mi sembra poco.
    [Un’amica mi ha prestato questo bel libro, e a volte ci vuole poco per rompere gli argini della memoria]

    Pictures came and broke your heart

    Filed under: — JE6 @ 13:13

    Quella sera decise, semplicemente, di cancellarlo. Aspettò di essere da sola, poi, dall’armadietto dove teneva le borse prese la scatola dove aveva raccolto fotografie e lettere e cartoline e biglietti del cinema e scontrini di ristoranti e mille altre cose. In silenzio, e stringendo i denti senza volerlo, si mise a stracciare tutto, in pezzetti piccoli che non lasciassero più nulla di ricostruibile, né il volto né la data della cena nè il negozio dove lui le aveva regalato quel portafogli che poi le avevano rubato sul vaporetto tra Chioggia e Venezia. Dopo un tempo indefinito ma lungo, con le dita ormai doloranti si fermò a guardare la montagna di coriandoli che occupava tre piastrelle del pavimento della sala. Si sentì soddisfatta; si alzò, andò in bagno per risciacquarsi la faccia, si fermò sulla soglia della camera da letto per ascoltare il respiro regolare dell’uomo che ogni tanto veniva a trovarla e che ora dormiva nel suo letto, tornò a sedersi sul divano. Guardò nuovamente i pezzetti di carta, e si rese conto di non aver solamente distrutto lui, ma anche se stessa. Sorrise, si sdraiò sul divano, e si addormentò.