My Own Private Milano
Capita che una sera, per una manciata di motivi qualsiasi, ti trovi a girare per la città nella quale sei nato e cresciuto e dove ancora vivi, rendendoti conto che la stai guardando con quella specie di curioso stupore che ti segue quando visiti un posto nuovo, non importa se questo sia una megalopoli americana sulle rive di un lago molto più grande di quanto la tua immaginazione mai ti avrebbe permesso di immaginare o un paesino della provincia emiliana dove il campo da baseball ha lasciato lo spazio a una distesa di prato irregolare.
Capita che ti venga la curiosità di sapere come alcune persone che tu conosci, nel modo irregolare e strano di questi tempi cosiddetti sociali, vedano la tua città – su cosa si sono fermati i loro occhi, quali luci hanno visto, che particolari hanno notato. E pensi che sarebbe bello provare a fare un esercizio di parole, pensi che si potrebbe provare a fare un racconto a due facce: Milano, fotografata dai non milanesi, e raccontata dagli indigeni.
La butti lì, e in due ore hai già venti persone che ti dicono “dai, ci sto”. Non perché sia una grande idea, né nuova. Forse, solo per la voglia di fare qualcosa insieme, a gratis. “My Own Private Milano” nasce così, in una sera di primavera passata a mangiare pane alle olive su una panchina di Corso Garibaldi, proprio dove c’è una vedovella, una fontana pubblica, una delle poche ancora rimaste. Venti fotografi, non milanesi, che un giorno hanno preso un’immagine di Milano. Venti scrittori, milanesi per nascita o per adozione, che un giorno hanno ricevuto una fotografia, e la richiesta di scriverci sopra qualcosa, qualsiasi cosa.
Quale sia il risultato non lo so. So che è stato bello farlo, so che è stato bello ricordare che questo è un bel posto, basta saperlo guardare, basta volerlo dire.