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31/10/2010
Io di solito non credo che la gggente sia migliore della sua classe dirigente, e per estensione di coloro che in qualsiasi modo incidono sulla formazione della pubblica opinione – per dire, i giornalisti. Io di solito credo che abbiamo quel che ci meritiamo, ecco. Poi mi capita di essere sul divano all’una di notte e vedere le prime pagine dei giornali, e trovarmi costretto ad ancorarmi la mascella di fronte a Gazzetta dello Sport e Tuttosport che titolano entrambi “Bunga Bunga Juve”, e cerco di consolarmi dicendo che ogni regola ha la sua eccezione.
Ho guardato The Social Network sull’onda dell’entusiasmo di molta gente che conosco, il che in genere non è un buon viatico al sedersi sul divano preparandosi a due ore di visione – perché hai aspettative elevate, e al tempo stesso tentazioni di bastiancontrarismo che tolgono obiettività .
Comunque.
Ero soprattutto curioso di capire se si trattava davvero di un film epocale, di uno di quei “film che parlano la lingua esatta del mondo e del momento in cui escono”. Sull’epocalità non so, ho qualche dubbio, ma diciamo che ne parleremo fra una generazione. Quanto alla lingua, forse sì. Forse è vero che TSN parla la lingua del nostro tempo, per il semplice motivo che il nostro tempo parla la lingua di ogni tempo: fatta di amicizia, invidia, denaro, solitudine, ambizione, bisogno di approvazione, sogni. TSN non racconta di nulla di nuovo, e questo è – per me – un pregio.
[Insomma, non è un film sorkiniano quanto credevo, è ben recitato e altrettanto ben diretto. Guardatelo]
30/10/2010
E anche se basta camminare dieci minuti, attraversare la strada, anche se è solo questo, quanto può costare andare al cimitero?
29/10/2010
Io la musica non la capisco. La musica mi piace – poca – o non mi piace – molta di più. Ma non la capisco, non capisco perché ogni tanto, per dire, ci sono questi assoli da nulla che però sto lì ad ascoltarli e ascoltarli e ascoltarli – la chitarra di “See the Lights” dei Simple Minds, saran quindici anni che la ascolto e lo so benissimo che quello lì mica è un gran chitarrista, che quello mica è sto gran pezzo, eppure. Non lo so, a me la musica piacerebbe capirla di più, trovarci dei motivi che non siano l’epidermide, mi piacerebbe anche non avere questo carattere che mi sento la sensazione fisica della scarsa sopportazione quando arrivo al quarto brano e non c’è ancora nulla non dico di nuovo, che del nuovo o del vecchio non mi frega nulla, ma di bello, qualcosa che mi faccia battere il piede senza volerlo (e lo vedi, sempre lì siamo, mi piace – non mi piace), che poi è la stessa sensazione che provo quando in televisione passa, non so, Enrico Papi o Striscia la notizia o una roba così e allora ficco la testa dentro un libro o mi alzo dal divano e ritorno dopo un po’. C’è poi che della musica si discute, e si discute allo stesso modo della politica e del calcio e dei telefilm e della moda, si discute alla guelfi e ghibellini, ce la si prende perché la musica che ci piace siamo noi e se tu dici che una roba ti piace allora ti senti fratello e se tu dici che una roba non ti piace allora stai dicendo che sono un cretino e insomma quello che cantava che sono solo canzonette aveva ragione e torto al tempo stesso e io dovrei ricordarmelo un po’ più spesso, ascoltare e basta perché a volte uno manca di rispetto senza volerlo e per cosa poi, per una canzonetta, già, per quello e chissà se ne vale la pena.
[Oh, poi: prendi la prima frase, e al posto di musica mettici, che ne so, arte, letteratura, sport, ci siamo capiti, funziona tutto sempre allo stesso, io funziono sempre allo stesso modo, purtroppo]
Il vero problema è che ci si abitua a tutto. E quando tutto è stato detto e ridetto, ascoltato e riascoltato, letto e riletto, D’Avanzo dopo D’Avanzo, a un certo punto ci si rende conto che per tanto tempo non si è fatto altro che inocularsi una modica quantità di veleno, giorno dopo giorno. Ci si è vaccinati, insomma: e quindi non si muore di quella malattia, ma nemmeno si reagisce più con la violenza che sarebbe necessaria, il corpo e la mente si sono assuefatti. Un po’ di malessere, un antipiretico, un antidolorifico e poi via, fino alla prossima volta.
28/10/2010
L’uomo cammina sul marciapiede. E’ giovane, elegante, il vestito gli calza a pennello, la camicia perfettamente stirata, il nodo della cravatta ben stretto. Tiene con la mano sinistra una ventiquattrore di cuoio, con la destra il telefono all’orecchio. Ascolta. Ogni tanto interrompe il flusso di parole che gli arrivano con un “ho capito”, un “possiamo parlarne”, un “come vuoi”. Termina la telefonata in silenzio, infila il telefono nel taschino della giacca. Con la punta della scarpa sposta un sasso, prima a destra e poi a sinistra. Si china, prende il sasso in mano, lo soppesa con lo sguardo assente. Improvvisamente lo scaglia, con un movimento lungo e violento del braccio e una frustata del polso. Una ragazza che esce da un negozio vede il finestrino di una macchina parcheggiata infrangersi in cento pezzi, mentre l’uomo riprende a camminare.
26/10/2010
Era il 26 ottobre di 20 anni fa, avevamo atteso quel giorno per dodici mesi e finalmente era arrivato. Avevamo preparato le nostre borse, e svuotato gli armadietti, e attaccato i lucchetti là al ponte sul Passirio, e cenato per l’ultima volta da Christof, Linda e Ulrike e fatto il pieno o comprato il biglietto del treno – un biglietto di sola andata, che serviva a tornare. A casa. Ci lasciammo il grande piazzale alle spalle, e non ci girammo, o forse qualcuno lo fece per gridare un insulto, una bestemmia pensando alle notti passate nel freddo dell’Alto Adige camminando tra il deposito dei carri armati e il centro ippico. Quasi tutti cercammo una cabina del telefono e buttammo giù una manciata di gettoni, chiamando fidanzate o genitori: ho finito, sono fuori. E tutti sentimmo dall’altra parte del filo come un sospiro di sfinito stupore, io non capisco perché sei ancora lì, ma perché non torni a casa stasera che qui ti aspettano, che io ti aspetto, ma non hai voglia di vedermi – e tutti rispondemmo la stessa cosa, perché tutti avevamo speso qualche venti o trentamila lire per una notte in un garni o una pensione a due stelle, un’altra notte lì nella valle mentre a casa c’era gente che ci aspettava, gente che aveva voglia di vederci e portarci fuori a bere, sì che ho voglia di vederti, ma ci fanno uscire in due turni, all’altra metà tocca domani, cerca di capire, ti voglio bene, adesso scusa, vado, ho finito i gettoni e mi stanno aspettando.
Disclaimer: l’autore è un amico, ed è pure uno con il quale puoi trovarti una sera a Parigi e prendere la metro e camminare e sederti su una panchina davanti alla fermata dell’Hotel de Ville finendo per sembrare i due vecchietti dei Muppets, e insomma sì, forse qui si è un po’ di parte, ma anche no.
C’è questo libro che si chiama Seconda stella a destra, ed è un libro che sembra raccontare la vita di qualche decina di astronomi famosi, ma in effetti è un libro sulla curiosità, sulla testardaggine, sulla fortuna che aiuta gli audaci, sul tenere gli occhi aperti, sulla fantasia, sulla capacità di immaginare l’impossibile e poi di vederlo quando si realizza, sull’immensamente grande e sull’immensamente piccolo, sulla tenacia, sulla discriminazione dei sessi, sul talento e su molte altre cose ancora. C’è questo libro che si legge d’un fiato, e poi ti viene voglia di leggere ancora, di leggere altro, adesso cos’è questa storia del tempo che si piega, c’è questo libro che bisognerebbe tenere a mente perché è vero che le storie sono già pronte ma poi bisogna anche saperle raccontare, c’è questo libro che bisognerebbe rileggere quando si pensa di essere afflitti da un lavoro sempre uguale a se stesso perché magari hai sotto gli occhi qualcosa di davvero nuovo e inaspettato camuffato da implacabile pulsazione ripetuta ogni tre secondi, c’è questo libro che una bambina di nemmeno dieci anni ne legge la quarta di copertina e ti dice “mi sa che mi piace, sai, me lo presti” – che è quel che io chiamo un successo, e una cosa bella.
25/10/2010
Guardo il calendario. Vedo che il mese di ottobre è ormai finito. So che c’è qualcosa che manca, e non mi è difficile rintracciarlo, ricordarlo. E’ una cosa che abbiamo fatto per più di vent’anni, due volte all’anno, prendere un giorno per noi, gli-amici-quelli-che-gesù-non-ho-più-avuto-amici-come-quelli-che-avevo-a-dodici-anni, e andare in un paesino di una valle a un’ora di strada da Milano, un paesino con gli affreschi e il lavatoio e la casa dove un giorno trovammo una bambolina voodoo lasciata da chissà chi e la locanda e gli alberi verdi in primavera e le foglie rosse in autunno, e metterci in palio un nostro trofeo che girava di casa in casa, e scattare fotografie, e arrostire carne, e fare caserma, e le cose che fanno gli amici, quelle che non vale la pena raccontare perché a parole è tutto stupido. Fissavamo le date la notte di Capodanno, il tredici aprile e il ventiquattro settembre, dai anticipiamo un po’, ma no guarda che fa freddo, ma quando cade Pasqua. Quest’anno è sfilato così, perché a Capodanno avevamo altri pensieri e qualche giorno dopo avremmo perso per sempre uno di noi e una parte di noi, ed è passata la primavera e non abbiamo detto nulla, ed è arrivato l’autunno e ancora non abbiamo detto nulla, allora a Capodanno cosa facciamo, e chissà se ci faremo forza e guarderemo il calendario oppure no, va bene così, abbiamo dato e adesso pensiamo ad altro.
24/10/2010
Il sacerdote guarda i presenti alla cerimonia e dice adesso ognuno chieda una grazia per il bambino. Tace e si fa silenzio, per qualche secondo anche il normale rumore di fondo di questi momenti – battesimi, comunioni, funerali – si ferma, perchè forse davvero tutti si sentono in dovere di augurare qualcosa a quell’esserino di pochi mesi, e c’è chi gli augura salute, e chi felicità, e chi ricchezza, e chi una donna da sogno, e chi di trovare la sua strada, e chi che i suoi genitori gli vogliano bene, e chi serenità, e chi basta che non sia infelice poi si vedrà, e chi cambia idea perché capisce che sta augurando ciò che vorrebbe per sè, e insomma se quel bambino ricevesse dalla vita solo la metà, solo un decimo di quanto gli stanno augurando quelle persone che lui non conosce e che forse non conoscerà mai sarebbe non diciamo felice ma certo fortunato, e in fondo anche se nessuno crede che questo possa succedere la speranza è l’ultima a morire e oggi non è il caso di pensare o parlare di morte.
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