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22/11/2010
Io non voglio essere migliore di quelli che mi governano. Io voglio aprire il giornale e sentirmi come quando la sera tardi mi metto sul divano e faccio partire West Wing, che guardo Jed Barlet e non vedo pochezze da pianerottolo ma grandezza e sofferenza e responsabilità e cervello e cuore, persino quando il senatore dell’Iowa o del South Dakota si mette di traverso impedendo qualche riforma epocale, perché in fondo sta cercando di fare solo e semplicemente il suo dovere, difendere i posti di lavoro di quello stato, portare investimenti, cose così. Io non voglio essere migliore di quelli che mi governano, voglio essere io quello che “il logo non lo puoi usare perché ce l’abbiamo in comproprietà, gne gne gne”, voglio essere io quello che nottetempo fa cambiare le serrature dellaa sede del partito, voglio essere io quello che “non mi danno retta allora me ne vado”. Io, non loro. E invece.
21/11/2010
Andando via gli ho dato un buffetto, sulla foto, sul marmo. Chissà se l’ha sentito.
20/11/2010
Ci è voluto un po’ perché la stanchezza cominciasse a lasciarmi. Ho dovuto sedermi, appoggiare la borsa sul sedile posteriore, baciarti sulla guancia, dirti “abbastanza bene” quando mi hai chiesto “come stai”, socchiudere gli occhi mentre attraversavamo la città e sorridere piano mentre sfilavamo in autostrada, come un serbatoio che si riempie goccia dopo goccia. Quando hai imboccato la strada provinciale mi sono guardata intorno, ascoltando la tua voce che si faceva forza di essere più allegra del solito raccontarmi delle cose che ci stavano accanto, perché avevi capito che avevo bisogno di silenzio, e di qualcosa di bello che lo riempisse, e in quel momento di bello potevi esserci solo tu e il profilo verde della collina sulla quale stavamo salendo. Quando mi hai mostrato quella vecchia rocca ho avuto la tentazione di dirti “fermiamoci qui, portami a bere un caffé, a fare quattro passi, fermiamoci qui e basta”, ma poi non l’ho fatto – eppure so che tu mi avresti dato retta, che lo avresti fatto, che lo avresti fatto per me. Ma sono contenta lo stesso, quel caffé sarebbe stato soltanto la ciliegina sulla torta, una torta che ci siamo comprati senza dircelo, come facciamo sempre; allora ho guardato la tua mano, che non poteva lasciare la leva del cambio, l’ho guardata e ho sorriso, l’ho sfiorata col pensiero, senza dirtelo. Poi tu hai detto una battuta, una scemenza qualsiasi, io ho riso, “sei uno scemo” ti ho detto e tu mi hai risposto “per servirla, signora” e, non importa per quanto, sono stata bene.
19/11/2010
Io non so quanto ci abbia ragionato sulle cose che ha detto, il presidente della provincia di Treviso. Quello della fucilazione degli sciacalli che razziano nelle zone alluvionate, per capirci. La cosa che mi atterrisce, affascinandomi, è quell’affermare che sì, l’incarico andrebbe dato alle forze dell’ordine in applicazione di una fantomatica legge marziale da applicare ad hoc; ma in fondo meglio – e probabilmente più giusto – sarebbe affidare il compito ai cittadini vittime dei furti: gli sciacalli andrebbero lasciati ai padovani, dice. Come se come se questo fosse il risarcimento corretto, giusto, congruo: a chi hanno rubato “la roba”? A loro. E allora che siano loro a farsi giustizia: secoli di dibattito sull’esercizio della forza da parte dello stato in nome della collettività messi a posto così, con una frase rivelatrice, con il ritorno al linciaggio senza mediazione. Oplà.
15/11/2010
Controllo di avere carta di identità e tessera elettorale, scendo le scale, attraverso la strada. Entro nella sezione di Sinistra e Libertà di via Appennini accolto da bandiere accasciate per la pioggia e dal saluto delle cinque persone che si prendono cura di questo seggio elettorale per le primarie del centrosinistra milanese; guardo la lavagna che dice che 144 persone hanno votato prima di me, chiedo come va, mi rispondono: “Mah, dai, abbastanza bene”. Facciamo quattro chiacchiere, quante volte sono venuti in quartiere i candidati, come sta messo Alonso quando mancano dieci giri. Faccio quattro conti a mente sull’età media dei presenti nella sala (loro cinque e il sottoscritto), arrivo a quarantasei virgola sei periodico. Saluto, esco.
Il resto, su Leftwing.
13/11/2010
Io ho questa idea, che viviamo un’epoca di portentosa sopravvalutazione della creatività personale (e pure di gruppo). Così basta avere un blog e scriverci sopra racconti intrisi di crepuscolare malinconia per credersi (e persino farsi considerare) scrittori, basta saper tenere in mano una chitarra ed esser capaci di distinguere un quattro quarti da un sette ottavi per credersi (e persino farsi considerare) musicisti, basta saper tenere in mano un microfono e non sbagliare più del trenta per cento di congiuntivi per credersi (e persino farsi considerare) intrattenitori di prim’ordine. E’ che bisognerebbe rivalutare un po’ la riproduzione della vera creatività, delle cose belle, almeno dove questo sia possibile: senza vergognarsene, senza ritenerla una cosa da poco, una cosa da sfigati; la musica, ad esempio, questo lo permette: si può prendere una sinfonia di Beethoven, un blues di Robert Johnson, un’ouverture degli Yes, un qualcosa (provate a definirlo, se ci riuscite) di Frank Zappa e rifarlo, praticamente identico all’originale, dando all’umanità che ti ascolta un piacere che ti dovrebbe ripagare mille volte della modesta castrazione delle tue velleità artistiche. Purtroppo questo è il gramo tempo storico dell’Io-a-tutti-i-costi, e sono pochi, troppo pochi quelli che riescono a capire che è molto meglio suonare alla grande bella roba altrui che rompere i coglioni al mondo con mediocre roba propria.
Fabio Fazio invita a “Vieni via con me” Gianfranco Fini e Pierluigi Bersani. Insomma, allunga il brodo di “Che tempo che fa” trasformando il presunto evento televisivo dell’anno in un clone di Ballarò, senza Belpietro e più noioso. Complimenti.
12/11/2010
La schermata si aprì davanti ai suoi occhi. Cliccò su “Sincronizza” e rimase a guardare la barra verde muoversi da sinistra verso destra. Fu quando questa arrivò a circa tre quarti del suo percorso che si chiese quanti di quegli ottocento contatti che teneva in rubrica, quanti di quei cento o duecento “friends” avrebbero avuto notizia della sua morte, di lì a dieci o vent’anni.
11/11/2010
L’uomo saluta il meccanico, ci vediamo tra un’ora, sì tra un’ora dovrebbe essere pronta, e si incammina sul marciapiede. Sono le dieci di una mattina qualunque, la statale che esce dalla città e attraversa una fila di paesi fitta come la collana di perline di plastica che sua nipote ha confezionato all’asilo è bloccata da un incidente, e per un breve tratto l’asfalto si svuota e scende una specie di silenzio con il quale nessuno sa come avere a che fare. L’uomo attraversa il piccolo parco, al primo incrocio si ferma a guardare una classe di bambini che si tengono per mano a due a due, in attesa di salire su un pullman che li porterà all’acquario o al museo di storia naturale, le cartelle più grandi di loro e i giubbotti gonfi dell’ansia delle madri per il primo freddo, poi prende una strada secondaria, guarda la metropoli sciogliersi in vecchie case che un tempo ospitavano famiglie fatte da molti figli e nonni vecchissimi e qualche zia vedova, case che non hanno giardini curati da avventizi peruviani ma fazzoletti di orto nei quali crescono verdure grigie e rachitiche, osserva le ragnatele ancora pesanti di rugiada mentre in lontananza il raccordo autostradale continua a pompare traffico dalla provincia verso la città. La macchia colorata di giallo e blu della tuta di un ciclista attraversa la via. L’uomo cede il passo a una signora molto anziana che si trascina un carrello della spesa, e due muratori che si dirigono verso un cantiere vicino, entra in un bar che un tempo frequentava più spesso, si guarda intorno senza riconoscere nessuno, ordina un caffè, sfoglia un giornale, controlla le ore. Esce dal bar, lentamente si incammina verso l’officina dove, quando arriva, il meccanico lo saluta dicendogli che le chiavi sono appoggiate sul sedile, non c’è stato bisogno di fare quel lavoro ma ripassa tra diecimila chilometri, va bene allora ci vediamo a gennaio, febbraio al massimo, io sono sempre qui, sono ventun anni che sono qui, lo so, quando ne fai venticinque ti offro da bere. L’uomo sale in macchina, il meccanico si avvicina al finestrino guardando la statale che torna a riempirsi di traffico, mi sa che hanno liberato la rotonda del centro commerciale, credo anch’io risponde l’uomo, succede sempre così, così come, così, il primo giorno di nebbia, come il primo giorno di pioggia forte, la gente non sa più guidare, hai ragione, bon, vado, ci vediamo, a presto, a presto e ricordati che mi devi offrire da bere.
08/11/2010
Passano due minuti – quelli sufficienti a pentirsi di non essere daltonico davanti al maglioncino viola da boy scout di sinistra di Matteo Renzi, quelli necessari a farsi una ragione dello show di modernismo percepito rappresentato dai due Mac esibiti come totem sulla scrivania degli organizzatori – per sentire l’espressione “doparie”, seguita (cinque minuti dopo, come da copione) da una dissertazione sulle “linee di crescenza delle città, per riallineare i pianeti in una cosmogonia”. In dodici minuti l’assemblea dei rottamatori manda in pensione la classe dirigente del Partito democratico e il rispetto per la lingua italiana: forse il rinnovamento tanto sbandierato richiede anche questo.
Nella sezione di Rifondazione Comunista di via Barona, a Milano, i minuti necessari a strabuzzare gli occhi sono più o meno gli stessi: dopo un’infilata di richiami alla lotta di classe ascolto un uomo chiedere chi fossero quei quattro ragazzi seduti là nell’angolo, e il suo interlocutore rispondergli: “Non li conosco, sono compagni molto più a destra di me, rappresentano posizioni criptovendoliane nelle quali non mi riconosco” (…)
Il resto, per la prima volta, lo trovate su Leftwing.
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