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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    06/11/2010

    Il nuovo che avanza, e che si ferma ogni cinque minuti

    Filed under: — JE6 @ 17:56

    Ho seguito un po’ della riunione renzian-civatiana di Firenze, quella della sapida rottamazione del passato in vista delle sorti magnifiche e progressive che i due ci stanno preparando a noi poveri sostenitori del PD. All’ennesimo gong che sanciva il termine dei cinque-minuti-cinque* concessi a ciascun oratore ho provato una specie di nostalgia per i ragionamendi di Ciriaco De Mita.

    *(ma quando ci prenderemo il lusso di restituire alla politica un po’ di profondità, lasciando i tempi della tv alle televendite?) – Matteo Orfini, oggi.

    Le palme

    Filed under: — JE6 @ 13:24

    Il ragazzo aspetta sul marciapiede, le mani in tasca, una gamba piegata con il piede appoggiato al muro, la borsa morbida lasciata per terra. Si guarda intorno, strizza gli occhi quando incrocia i raggi del sole dell’inizio dell’estate, fa passare lo sguardo sulle vecchie palazzine nobiliari, le palme, le tende, ascolta il silenzio di una via centrale che per motivi a lui sconosciuti sfugge al traffico. Ogni tanto guarda verso l’incrocio che sta alla sua destra, a un centinaio di metri di distanza.
    La ragazza arriva dopo una decina di minuti, rallenta e accosta guardando dritta avanti a sé. Parcheggia, prende la borsa dal sedile del passeggero, scende, si avvicina al ragazzo. Si salutano scambiandosi un bacio sulla guancia. Sono in ritardo, dice lei, vai, non ti preoccupare, risponde lui. Lei sorride, lui le dice quanto ti stanno bene questi jeans, lei sorride ancora e guarda la borsa di lui lì, sull’asfalto del marciapiede. A che ora parti, gli chiede anche se lo sa benissimo, fra un paio d’ore dice lui, che poi fa un cenno verso un giardino custodito da un cancello in ferro battuto, ci sono le palme, dice, sì, risponde lei. Fai buon viaggio, gli dice, adesso vado. Lui non dice niente. Si china, raccoglie la borsa. Ti stanno davvero bene questi jeans, sai. Adesso vado, ci sentiamo dopo, sì, ciao, ciao, vieni qui, siamo in mezzo alla strada, lo so, vieni qui, il ragazzo allarga le braccia e la stringe, senza dire nulla.

    03/11/2010

    Sense of humour

    Filed under: — JE6 @ 09:41

    Dice che è una battuta, uno scherzo, che le cose importanti sono altre – come se non sapessimo che è con le battute che si dicono le proprie verità.

    01/11/2010

    Appena smette di piovere

    Filed under: — JE6 @ 16:20

    Là fuori è pieno di gente che non ama andare al cimitero. Lo scansa, lo rifugge, lo rimuove.
    Lo capisco. Li capisco.
    Poi c’è gente come me, che i cimiteri li va a cercare.
    L’anno scorso ho scritto queste righe, che oggi mi sono tornate in mente. Quest’anno ho un motivo in più per andare: sto solo aspettando che smetta di piovere, sto solo raccogliendo le forze per farlo, sapendo che quando mi troverò davanti a quella tomba – e sarà la prima volta – non farò altro che piangere come un bambino, o come uno che ha perso un amico e un pezzo della sua vita. Tutto qui.

    Me lo ricordo come se fosse adesso, anche se non lo saprei ritrovare. Era la primavera del 1996, e ci capitai per caso. Ero ad Atlanta, avevo una domenica libera e una macchina noleggiata. Mi svegliai all’alba, uscii da Buckhead e presi l’autostrada verso Memphis. Dopo un po’ mi resi conto che non sarei mai riuscito ad andare e tornare in giornata, e feci quel che faccio spesso a piedi: lasciai la strada principale, e iniziai a girare a caso. Ero entrato nel Tennessee, avevo spostato l’orologio per il fuso orario, e mi godevo l’enormità dell’America che toccavo con mano per la prima volta. Non so come, mi trovai di fronte a una high school chiusa per non so quale vacanza; parcheggiai e andai a farmi una camminata, calpestai il prato del campo di football, mi sedetti sugli spalti deserti guardando gli striscioni che incitavano la squadra della scuola. C’era il sole e un silenzio che ritrovai solo molti anni dopo, in una notte di inverno a Vipiteno. Andando a riprendere la macchina mi venne l’idea di fare altri quattro passi, senza nessun particolare motivo; e fu così che mi trovai in questo cimitero, che era un prato verde con le pietre messe probabilmente a caso, sfruttando le zone più lisce. Era un posto pieno di morti, e vivo al tempo stesso, come sono tutti i cimiteri a pensarci bene. Rimasi un po’, decisamente a lungo in considerazione di quanto era piccolo – un microscopico cimitero di un piccolo paese della profonda provincia americana – e rimasi semplicemente a godermi l’atmosfera. Poi, altrettanto semplicemente, uscii dal recinto ideale – c’era giusto una staccionata, e nemmeno lungo tutto il perimetro -, risalii sulla mia Corsica e andai verso Chattanooga.
    Non so perché racconto questa storia. Forse perché mi piacciono i cimiteri. Non c’è nulla di macabro, spero che sia chiaro: sono posti, come dicevo prima, a loro modo pieni di vita; un po’ quella che viene dalle parole e dalle fotografie sulle lapidi, un po’ quella che ti immagini tu guardando le fotografie dei defunti, i fiori e i piccoli oggetti che gli ancora vivi portano sulle tombe. Ne ho girati tanti, di cimiteri, in molti casi ci sono andato apposta: il First Cemetery di New Orleans, con le tombe degli italiani e della prima moglie del primo governatore della Louisiana, morta giovanissima di parto come mille altre ragazze degli inizi dell’Ottocento; il cimitero di guerra americano di Omaha Beach, con le migliaia di croci bianchissime e il rumore del mare che a qualche centinaio di metri batte il costone di sabbia e roccia; El Camposanto di Old Town San Diego, con le tombe dei ladri impiccati; il Monumentale di Milano, con la storia di una città che non c’è più nell’anima; i prati all’interno dei campi di Dachau e Mauthausen, che ricoprono le ceneri e le ossa di decine di migliaia di prigionieri, quando c’era ancora spazio per seppellirli; i cimiteri di guerra del parco di Trenno a Milano, di Fiesole, e quello di Merano, con le tombe dei soldati tedeschi in pietra più scura e quelle dei soldati italiani in pietra più chiara. Ci vado, nei cimiteri, perché mi piace quella specie di sospensione del tempo che ci si trova dentro, perché mi fermo a pensare o anche soltanto ad ascoltare un po’ di silenzio, perché raccontano dei vivi almeno quanto dicono dei morti.
    Forse so perché racconto questa storia; perché oggi è il giorno dei morti, e io accompagno mia moglie nel cimitero dove è sepolta buona parte della sua famiglia; la mia sta dall’altra parte del mare, in quell’isola dove non metto piede da quasi vent’anni. Ho girato tanto, e in qualche modo non sono mai tornato a casa, non ho mai visto le tombe dei miei nonni; sono molti anni che ci penso, sono molti anni che provo a immaginare come sarà quel momento: e chissà come sarà, perché alla fine è tanto più facile vivere la vita degli altri – e anche la morte.