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28/02/2011
Capita spesso: sali, sali fino a diecimila metri, e quando l’aereo si raddrizza vedi il sole, quello che chiudi gli occhi e te lo senti sulle guance, e sulla bocca, fino a quando scotta, e allora guardi la hostess che si avvicina per offrirti un bicchiere di Coca-Cola calda. Poi scendi, e ti si avvicinano le nuvole, le guardi arrivare, ne valuti la consistenza, la densità, c’è un momento preciso nel quale trattieni appena il respiro, è una frazione di secondo, è quando entri nella lana dei nembi e scompare la luce e pensi al pilota che ha davanti a sé solo latte e fuimo grigio. Dopo qualche minuto, mentre la sinusite e il cambio di pressione ti fanno scoppiare la testa, esci da quello strato di cecità, guardi fuori dal finestrino e rivedi la luce. Di solito puoi già vedere la terra là sotto, i bacini artificiali, i boschi, le autostrade, le ville a schiera, i puntini rossi in movimento dei fari delle macchine. Ma succede, alcune rare volte, che ti ritrovi in mezzo, che sotto di te vedi un altro strato di nuvole da attraversare, e la prima immagine che ti viene in mente è quella del prosciutto tra due fette di pane, ma senti anche un leggerissimo sibilo di desolazione, ti dici ma come, ancora, come se quel secondo tappeto fosse un’ingiustizia, una beffa, uno scherzo di cattivo gusto, come quando credi di aver finito un lavoro e ti arriva la telefonata mentre stai per spegnere il computer, come quando pensi di aver risolto un problema e invece scopri che non è così, non ancora, come quando sei sicuro di aver passato l’ultimo tornante e invece che il rifugio ti trovi di fronte un’altra rampa pietrosa. Poi l’aereo scende, scende ancora, attraversa anche quel banco, le ali vibrano un po’, e là, là in fondo, ancora lontana ma visibile, ecco la città.
Se vivessimo in una società realmente democratica, si sarebbe tenuta in debito conto l’opinione di cinquecento milioni e fischia di iscritti: e così The Social Network avrebbe vinto quindici Oscar quest’anno e pure qualcuno dell’anno prossimo. Invece, siccome questi premi vengono dati da una ristretta intellingencija composta da sei(mila) snob rinchiusi nelle loro torri eburnee, il popolo rimane una volta di più a bocca asciutta. Ci sarebbe da metter su una raccolta firme su Facebook, se non suonasse troppo come conflitto di interessi.
27/02/2011
Allora se n’è andata?
Sì.
E dove?
Non lo so. Ma lontano.
Però forse non è andata via davvero.
Dici?
Sì. E’ diventata una foto.
26/02/2011
A volte sembra che le parole ti si presentino davanti tutte insieme, secondo un ordine che non può avere a che fare unicamente con il caso. Così, l’altro giorno l’immagine del murale che dice “Society gets the kind of vandalism it deserves”, questa mattina il pezzo di Diego dall’isola che c’è, adesso facevo caso a una cartolina che ho preso in non ricordo più quale locale – dice “ognuno merita il regime che sopporta”, ripenso a un pezzo del finale del video di Diego, quando dice “No dicevo noi, io e te, che culo, a sta deqquà. Che llà, a guarda’ er mare, se ce pensi, era ‘n attimo che stavamo dall’artra parte”, e allora no, non abbiamo merito se siamo nati deqquà, ma magari qualche motivo perché non facciamo la rivoluzione con la quale in tanti si riempiono la bocca tra un mojito e una partita del Sei Nazioni ce l’abbiamo.
25/02/2011
I lavori non sono mai nuovi per le cose che devi fare, ma per le persone. Le facce, i nomi, le abitudini e tutto il non detto che devi scoprire anche se non ti interessa, perché con quella gente – e alcuni in particolare – passerai gran parte della tua vita da sveglio, e incidenti e squadre del cuore e figli e separazioni e amicizie e gusti musicali e preferenze politiche e luoghi di nascita sono qualcosa più di un semplice curriculum vitae, sono le cose che fanno le persone, sono le persone. Per un po’ stai ai bordi, dei colleghi e di ciò che sono, parli poco, ti guardi attorno, ascolti, ché il tuo mondo è – in fondo – ancora un altro. Un giorno offri il caffè, un giorno te lo fai offrire, un giorno dici che per pranzo hai da fare, un giorno prendi il fiato e dici sì vengo anch’io, un giorno ti fermi a guardare un libro su una scrivania – l’ho letto anch’io, davvero, sì, a me piace un sacco, anche a me è piaciuto molto se vuoi ti porto il seguito quando l’hai finito, ma senti ma tu quanti anni hai, un po’ più di te mi sa, sì ma quanti, questi, dai mi stai prendendo in giro, no purtroppo, non l’avrei mai detto, ci vediamo domani, ci vediamo domani – un giorno sei lì sul balcone a fare la pausa sigaretta anche se non fumi e poco alla volta il suo mondo e il tuo mondo escono, come pianticelle che mettono fuori la testa in questi primi giorni di sole e luce e tepore, amici, viaggi, famiglie, persone care, il funerale dal quale sei appena tornato, ché la vita non deve per forza essere sostituzione, può essere aggiunta, e quando ritorni alla scrivania hai la sensazione che il tuo mondo non sia più ancora un altro, ma sia anche altro, e sia anche questo, che non hai buttato via nulla, che con un po’ di fortuna hai guadagnato qualcosa e qualcuno senza perdere altro, ti siedi, mandi una mail, fai una telefonata, riprendi.
Il problema non era che ogni giornata fosse dura, aspra, senza pietà. Se fosse stato solo questo, non sarebbe stato troppo complicato. La cosa tremenda era che tutto avrebbe potuto essere più semplice, eppure le cose non andavano così (…) La vita è come una scolara pigra, che in pagella si merita un “brava, ma non si applica”.
Tibor Fischer, “Adoro essere uccisa”
24/02/2011
Ho un’immagine, da qualche parte qui nell’hard disk – è un murale, il disegno che raffigura un ragazzo orientale che tiene in mano un cartello, e quel cartello dice “Society gets the kind of vandalism it deserves”, e anche se ogni volta che vedo cose di questo tipo mi si attiva il gusto scemo del “sì, però”, questa sera mi sembra di stare di fronte a una roba indiscutibile, e basta.
21/02/2011
Voi che avete seguito più di me, ma quest’anno c’è stato il solito tormentone sulle vallette del Festival usate come tappezzeria di carne, esempio di scarsa considerazione del ruolo femminile, baluardo della società maschilista, oppure il bonus indignazione era stato esaurito con la manifestazione del 13?
20/02/2011
I giorni di Sanremo sono una specie di carnevale-che-ogni-scherzo-vale, quelli dove i thirty-e fortysomething cresciuti a pane, cinismo, disincanto e wittysmo imbracciano il telecomando e via, uh che figo quel vestito, no quest’altro non si può vedere, eccolo il tormentone, belli i fiori, l’anno prossimo però un altro conduttore, uguali identici ai loro genitori nel 1973, perché a una certa età e almeno per una settimana all’anno il divano è comodo per tutti, non c’è da vergognarsi ma solo da divertirsi, le serie americane in lingua originale possono aspettare lunedì.
17/02/2011
Cerco di ricordare a quanti eventi storici, a quanti punti di non ritorno ho assistito, da normale e semplice spettatore televisivo quale sono da molti anni a questa parte. La prima immagine a colori, la trasmissione combinata Costanzo-Santoro, Quelli della notte, Grillo che dà dei ladri ai socialisti, Benigni che palpa gli zebedei di Baudo, Vermicino, il fuorisincrono di Ghezzi, Blob, Colpo grosso, Drive In, Telepiù, il Satyricon di Luttazzi con l’intervista a Travaglio, e ancora Santoro in piazza poco meno di un anno fa – e la lista potrebbe continuare. Ogni volta qualcuno ha detto “Una cosa così non c’era mai stata“, e ogni volta questo qualcuno aveva ragione. E’ che probabilmente nutro ancora l’ingenua speranza che i punti di non ritorno siano davvero tali, che da essi si prenda, si parta e non si ritorni più indietro; invece questo è il paese delle rivoluzioni complete, quelle che fai un salto fanne un altro, fai una giravolta falla un’altra volta, trecentosessanta gradi e ritorni esattamente dove e come eri prima, in attesa del prossimo evento storico.
Jonkind
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