Camera dodici, letto A
Gli ospedali si assomigliano un po’ tutti, all’una di una domenica pomeriggio – i pazienti sotto le lenzuola che cercano di prendere sonno dopo il pranzo, quello che sta davanti alla macchinetta del caffè sapendo che sta per buttare via cinquanta centesimi, l’anziano signore elegantissimo con il borsalino e scarpe di cuoio, le due sorelle che bisbigliano parlando una lingua arcaica che nessuno può capire, il bambino annoiato che si aggrappa alla gamba del padre, le infermiere che portano in giro il carrello dei medicinali, quello che guarda fuori dalla finestra e poi prende il telefono e legge le notizie dal mondo reale e poi spegne il telefono perché lì dentro di realtà ce n’è più che a sufficienza, la figlia che arriva e riparte trafelata perché ha un impegno inderogabile con gli amici di famiglia, l’aria ferma e attutita di un momento di pausa, come se tutti stessero cercando di prendere o riprendere le forze, chi per tornare a casa, chi preparandosi a una notte di veglia, quella che manda messaggi, quello che chiede di abbassare la suoneria – i parenti sono pregati di uscire, l’orario di visita è terminato, e i parenti escono, e quando si trovano all’aria fredda e umida di un giorno piovoso di febbraio si passano una mano sul volto, e si sentono addosso come una patina che non viene via nemmeno dopo due docce, e vogliono solo mettersi su un divano e dormire un po’.
February 14th, 2011 at 14:37
accidenti
February 14th, 2011 at 15:02
Sì. E’ proprio così.
February 14th, 2011 at 15:06
non finisce così, e sono convinta che qualcuno ne uscira guarito!
February 14th, 2011 at 15:07
Le strutture sono tutte uguali, solo poche spiccano, quali però
February 14th, 2011 at 20:46
la migliore descrizione di un ospedale mai letta.
Mi ha ricordato quel tuo racconto su quella persona che aspettava la morte di un’altra persona per poter vivere.
February 23rd, 2011 at 20:36
leggo e rileggo e solo una domanda “si agita” incessantemente, costellata da un corollario quasi immobile ed imperturbabile.. tu lo vedi da dentro, o sei sdraiato su quel divano, cercando di incollare i pezzi di un sonno che, quando passi degli attimi di vita circondato dalla sofferenza, tua, o altra che sia, stenta comunque ad arrivare e ad alleggerirti del peso che grava sui tuoi pensieri… alla resa dei conti poco importa, dettagli l’immagine al punto che se chiudo gli occhi vedo una sequenza di scene come fosse un film… a volte magari distratta, o solo per coprire il rumore di un vuoto, mi perdo a leggere in un blog la vita vista delle lenti di altri che non conosco… e finisco col rendermi conto che spesso, proprio le parole di coloro di cui ignoro l’esistenza, sono quelle che meglio reiscono a trasmettermi un brivido e non lo so spiegare, è come se un angelo mi passasse accanto e mi sfiorasse i capelli con un alito di vento…
grazie!
March 1st, 2011 at 22:17
Ci vivo, ogni giorno, dentro. Ed ogni giorno ho la fortuna di uscirne a fine giornata, a fine nottata. Ma uscire non serve a niente, non serve a togliere quel velo di tristezza che ti si attacca addosso, lieve come le ragnatele, ma altrettanto persistente. I pazienti ti seguono, sempre, anche nei week end, anche in vacanza. Ma sapere che qualcuno sorride di nuovo, che qualcun altro, nonostante tutto, è contento di vederti e che, per altri, il tuo sorriso sarà l’unico sole della giornata, è una specie di panacea anti tristezza.
Amo quei letti, quei posti: uscirne lascia carichi di un peso che si solleva solo quando un tuo paziente esce con te.
Lo chiamano burn out; io non so come si chiami la voglia di piangere perchè non si può fare null’altro,nè la gioia leggera ed energizzante che si prova sapendo che un perfetto sconosciuto ora sta bene.