E tu, che lavoro fai?
Devo andare in un’università a parlare di lavoro. Del mio, e di quello che fanno i miei colleghi. Il che da una parte mi obbliga a capirlo, il lavoro dei miei colleghi – tutti, e non solo quelli con i quali ho a che fare quotidianamente. Ma dall’altra mi costringe a capire il mio: o meglio, a trovare le parole giuste per descriverlo, e mi rendo conto che la cosa non è facile. Siamo ormai in tanti a fare lavori vaghi, forse perché le dieci o dodici ore che ci dedichiamo ogni giorno vengono riempite da cento cose diverse, spesso legate tra loro in modo molto lasco. Non è questione di precarietà o meno, la differenza in questo caso non penso che venga fatta dalla tipologia di contratto che si ha avuto la fortuna di spuntare – è proprio il cambiamento delle cose che facciamo: senza sciocche venerazioni per i nobili mestieri del tornitore e del panettiere, c’è questo aver a che fare con cose che tanto spesso hanno la consistenza di quella che qui a Milano chiamiamo fuffa – i social network, i “Mario Rossi è diventato fan di (azienda a caso)”, i business development, i mobile contact strategy, i data mining analytics. A volte penso che se i nostri clienti vedessero il dietro le quinte delle presentazioni che gli facciamo, le riunioni che le precedono, allora sì che ci sarebbe da ridere. Non perché non prendiamo sul serio quel che facciamo, ma perché quando ci parliamo fra di noi sappiamo essere “terra terra”, e a volte ci capita anche di essere capaci di chiamare le cose con il loro nome. Poi penso che loro non sono messi meglio di noi, e che gli uni e gli altri alimentiamo una finzione di parole della quale siamo reciprocamente consapevoli, e allora pari e patta, va bene così. Solo che un giorno devi andare in un’università a parlare di lavoro, del tuo lavoro, e ti rendi conto che fai troppa fatica a cercare le parole giuste, e ti chiedi se questo non sia un segno dei tempi del quale avresti volentieri fatto a meno.