< City Lights. Kerouac Street, San Francisco.
Siediti e leggi un libro

     

Home
Dichiarazione d'intenti
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

Talk to me: e-mail

  • Blogroll

  • Download


    "Greetings from"

    NEW!
    Scarica "My Own Private Milano"


    "On The Blog"

    "5 birilli"

    "Post sotto l'albero 2003"

    "Post sotto l'albero 2004"

    "Post sotto l'albero 2005"

    "Post sotto l'albero 2006"

    "Post sotto l'albero 2007"

    "Post sotto l'albero 2008"

    "Post sotto l'albero 2009"

    "Post sotto l'albero 2010"


    scarica Acrobat Reader

    NEW: versioni ebook e mobile!
    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione mobi"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione mobi"

    Un po' di Copyright Creative Commons License
    Scritti sotto tutela dalla Creative Commons License.

  • Archives:
  • Ultimi Post

  • In and out
  • Per poter riderci sopra, per continuare a sperare
  • Sfumando
  • Srebrenica, 11 luglio
  • Gabo, e mio papà
  • “Vero?”
  • Madeleine
  • Scommesse, vent’anni dopo
  • “State andando in un bel posto, credimi”
  • Like father like son
  • May 2011
    M T W T F S S
     1
    2345678
    9101112131415
    16171819202122
    23242526272829
    3031  

     

    Powered by

  • Meta:
  • concept by
    luca-vs-webdesign

     

    04/05/2011

    My own private America

    Filed under: — JE6 @ 09:12

    La prima volta che sono andato in America era il 1996, ad Atlanta. Ricordo che provai una sensazione strana, che si è presentata ogni volta che ci sono tornato – un’altra dozzina: non ero stupito di ciò che vedevo, perché mi pareva di conoscere già tutto. I grattacieli, le macchine della polizia, le bottiglierie, i mall, le autostrade a dieci corsie. Cento libri, mille film, diecimila telefilm: l’America era esattamente quella che conoscevo, non lasciava spazio all’immaginazione. Poi, per i casi della vita, conobbi gli americani. Lavorai per quattro anni per un’azienda di Seattle, poi cambiai lavoro ed ebbi ugualmente a che fare con loro: alcuni erano clienti, altri erano fornitori, qualcuno diventò persino amico. Ci andai insieme allo stadio, di qualcuno conobbi la moglie e i figli, ci parlai insieme di politica e della vita di tutti i giorni. Mi capita ancora oggi. Non ho la superbia di dire che conosco gli americani, ho un campione statistico insignificante per permettermi di giudicare trecento milioni di persone. So solo che, scavando solo un po’, si scopre che gli americani siamo noi, perché uno ha i nonni norvegesi, l’altra è mezza polacca e mezza francese, questo è nipote di italiani e quello è guatemalteco e quell’altro è coreano. So solo che, rispetto a noi quarantenni europei, sono loro ad aver toccato con mano il sangue e la guerra – il nonno in Corea nel 1952, lo zio in Vietnam nel 1966, il fratello maggiore in Iraq nel 1991, il compagno di college in Afghanistan nel 2008. So solo che tutti pensiamo di sapere chi sono gli americani, e ce la prendiamo quando ci chiamano pizza mafia e mandolino.