Il muro chiaro
Io volevo solo farmi fare una fotografia. Andavamo piano e mio figlio ha chiesto è questa la via, sei sicuro, e io gli ho risposto sì, sì è questa, sono passati più di cinquant’anni ma non è cambiata, vai avanti verso il centro. Poi ho visto il muro di cinta, è ancora chiaro come nel 1952, allora gli ho detto mi sa che è questa ed ero un po’ emozionato, avevo paura di sbagliarmi, invece lui ha guardato bene, ha fermato la macchina e ha detto sì, è questa, dai scendiamo che ti faccio una foto, mettiti lì vicino all’ingresso dove c’è il simbolo del reggimento e così ho fatto, ma poi i ragazzi del corpo di guardia mi hanno chiesto chi ero e io gli ho detto chi ero, gli ho detto che avevo passato lì dentro sei anni della mia vita, forse hanno capito dalla faccia che erano stati sei anni felici e allora hanno detto venite dentro, io non volevo disturbare ma al tempo stesso quello era il mio sogno, ho ottant’anni e mi sentivo come un bambino, quei ragazzi mi stavano facendo un regalo e allora ho risposto non vogliamo dare fastidio ma intanto ero già dentro e giravo la testa e dicevo a mio figlio io dormivo lì, al primo piano, e il piazzale non era asfaltato, lì c’era la mensa, là dietro i carri armati e le autoblindo, le motociclette sulle quali io e i miei compagni passavamo sedici ore al giorno invece stavano in quel deposito sulla sinistra, ma questa palazzina non c’era – e il nostro accompagnatore si è messo a ridere e ha detto beh, sa, sono passati più di cinquant’anni, non è che posso offrirvi un caffè? e io ho risposto no, davvero, non vogliamo disturbare, lei è già stato tanto gentile, continuavo a guardarmi intorno ed ero contento, contento proprio, contento fino in fondo, siamo usciti salutando questi ragazzi nella loro mimetica blu e io guardandoli mi sono detto madonna quanto sono belli, chissà se lo eravamo anche noi, ero così contento che stavamo andando via dimenticandoci di fare quella fotografia, allora mio figlio mi ha detto dai papà, lì, nell’angolo vicino al simbolo del reggimento e in quel momento preciso mentre lui stava mettendo a fuoco ho pensato che forse questo è stato l’ultimo viaggio che ho fatto, che qui non tornerò mai più e ho sentito male, un male velocissimo e intenso, ma è stata questione di un istante, ho sorriso, il flash è scattato, ho riguardato quel muro chiaro e i ragazzi che mi salutavano, e siamo ripartiti.
(Non so come si chiamava quel carabiniere che ci ha fatti entrare, aveva il nome sulla mimetica ma non l’ho memorizzato. So che il regalo a mio papà lo ha fatto lui sorridendogli e dicendogli “venga dentro”, l’ho ringraziato in quel pomeriggio di una domenica di maggio, lo faccio qui, a modo mio, come posso)