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28/09/2011
A volte mi piacerebbe fare un lavoro che mi permettesse di non avere a che fare con le persone – il pastore, il camionista, cose così. Mi piacerebbe non dovermi fare coraggio prima di certe telefonate a un cliente, mi piacerebbe evitare di imbarazzarmi durante riunioni che deragliano perché ognuno dei partecipanti ha il suo schema mentale da seguire, mi piacerebbe non trovarmi a un tavolo e realizzare che la persona con cui sto parlando oddio ecco chi è, a volte ti si aprono gli occhi e fai due più due ed è tutto così chiaro, ma business is business e allora tocca concentrarsi sulle cose che si stanno dicendo ma che fatica. A volte mi piacerebbe schivare tutto questo, schivare la gente e pure me stesso che preferirei non averci a che fare per non mostrare il lato peggiore di me. A volte.
23/09/2011
Si muovono come se al mondo ci fossero solo loro, le mani che si tengono salde, strette ma non troppo, le gambe che si incrociano, i fianchi che cambiano direzione con uno scatto improvviso. Girano, seguendo il perimetro della loggia, si portano verso il centro e poi tornano a sfiorare il muro portante e i tre lati aperti, quelli dove la gente come me si ferma a guardarli. Fisso ipnotizzato i piedi, le donne – tutte, senza eccezioni – portano i tacchi alti, anche non altissimi, gli uomini sneakers colorate, o mocassini. Le une eleganti anche negli abiti, gli altri come presi di sorpresa nelle polo con le scritte e i jeans sdruciti. Sono tredici coppie e ballano il tango nella loggetta romanica di Treviso, come una scena di Fellini, come una parentesi di una mezz’ora in una giornata di telefonate e persone da incontare e telefonate aspetta che metto i colleghi in viva voce e dialoghi troncati come sassi caduti in uno stagno. Da un ristorante esce Buffalo Soldier di Bob Marley, poco più avanti il rumore tranquillo del Sile che scorre in Riviera Garibaldi, in mezzo il tango.
22/09/2011
Colonia è un respiro tra un aereo in ritardo e una persona da vedere in fiera, è una cena di fretta con la camicia appiccicata sulle spalle, è un tassista che ti porta dalla parte sbagliata della zona pedonale, è un concierge dell’entroterra di Sanremo che non ha perso l’accento a dispetto dei trentacinque anni passati in Germania. Colonia questa volta mi sfugge nella fretta del flipper di questi giorni ma c’è un momento, un momento preciso, è il momento in cui il tram della Schnellbahn si ferma proprio a metà di uno dei grandi ponti che attraversano il Reno, il momento in cui basta voltare la testa per guardare la città vecchia, Altstadt, per fissare le guglie nere della cattedrale nel cielo azzurro e nell’aria fresca dell’estate del nord, per pensare che è sempre bello tornarci, anche se per poco, per un respiro solo.
La fregatura con certa gente è che ti ci affezioni come se fosse vera, come se fosse fatta di carne e ossa che parla a-te-proprio-a-te dicendo tutte le parole giuste, e invece bisognerebbe considerarla per quella che è – la copertina di plastica di un cd, un mp3 da spostare da un hard disk a un iPod. Così non ci si intristirebbe né a sapere che quella gente ha deciso nella vita di mettersi a fare altro che parlare-a-te-proprio-a-te, né a vederla sempre più lontana da ciò che una volta era e oggi non riesce più a essere, non si sarebbe costretti a patetiche difese beh-ma-una-grande-canzone-riescono-a-metterla-in-ogni-disco, non si dovrebbero chiudere occhi e orecchie come si è fatto tante altre volte – dio, ma hai visto come si è ridotto Lampard, non esce più dal cerchio di centrocampo nemmeno se preso a calci. E invece a certa gente ti ci affezioni come se fosse vera, e allora.
[I R.E.M. han detto che si sono sciolti. E qui, che un giorno volando sopra il deserto del Nevada ci si è fatti prendere dallo struggimento adolescenziale e ci si è messi a cantare sottovoce All the way to Reno guardando i tre pollici di mappa sullo schienale del sedile dell’aereo senza provare vergogna ma contando sulla comprensione del vicino di posto, qui si pensa che hanno fatto bene, che avrebbero dovuto farlo prima ma che va bene così, che se non si è capaci o non si è riusciti a uscire di scena quando si era al massimo in fondo va bene se si molla il colpo quando non si è ancora toccato il fondo. Poi sì, hanno già annunciato il best of, e arriverà la reunion, e il tour mondiale per danzare sotto il proprio stesso totem, ma per sputar veleno ci sarà tempo. Anzi no, si troverà un’altra giustificazione, perché la fregatura con certa gente è che ti ci affezioni come se fosse vera]
21/09/2011
C’è un ponte, si chiama il ponte dei ciabattini, che è quello dove la gente di qui va a suonare, e va a sentir suonare. Passo mentre un trio jazz suona gli ultimi pezzi della sua serata, nel frattempo arrivano tre ragazzi, con la barba e i capelli lunghissimi e gli strumenti sotto braccio, sono quelli che suoneranno dopo, tra una mezz’ora forse, mi giro per guardare gli spettatori, una coppia sulla cinquantina, due ragazze bionde che si passano una sigaretta, e una ragazza dai capelli scuri con gli occhiali dalla montatura grossa che le coprono mezza faccia seduta in equilibrio sulla balaustra del ponte che tiene il tempo con la testa, e quando giro la testa vedo uno dei tre ragazzi con la barba e i capelli lunghi che sta tornando verso i suoi compagni, è vicino alla custodia del sassofono del trio jazz adagiata sull’asfalto per raccogliere le monete dei passanti, lui fa un gesto rivolto ai tre che stanno suonando, si mette la mano sul cuore e sorride e mi piace pensare che sia andato a mettere un euro in quella custodia, come un segno di fratellanza tra artisti di strada, e il contrabbassista ricambia con un cenno della testa. Lascio il ponte, faccio venti o trenta metri, abbastanza per perdere le note che vengono dal ponte, mi avvicino a una pizzeria sulla riva destra del Ljubljanski, c’è silenzio, e da questo silenzio improvvisamente viene fuori un canto alpino del quale non posso capire le parole ma solo seguire la melodia ripetuta tre volte, sono otto uomini vestiti di loden verde, sembrano un coro e cantano come se lo fossero davvero, sono seduti a due tavoli quadrati affiancati, ognuno ha davanti a sè un bicchiere bevuto a metà, io mi fermo, si ferma un uomo in bicicletta e un altro che tiene un bambino piccolo in braccio, si girano i clienti degli altri tavoli smettendo di mangiare, si fermano tutti ad ascoltare questi due minuti incongrui, dal locale che sta a fianco della pizzeria arriva il solito centoventi battute al minuto ma questi otto sono più forti di tutto e quando finiscono applaudiamo, io e i clienti con la pizza a metà e il signore in bicicletta e l’uomo con il bambino piccolo in braccio, un signore da un tavolo grida bravò, loro fanno un sorriso quasi sorpreso, come se per loro fosse normale andare in pizzeria e cantare come angeli, e forse per loro lo è, ognuno riprende il suo bicchiere e beve un sorso, i clienti tornano a mangiare, noi ce ne andiamo via come se nulla fosse successo, perché queste cose non succedono per davvero.
Ljubljana è uno di quei posti nei quali torni volentieri – ci vuoi proprio tornare appena ne hai la possibilità – non per ciò che di nuovo ci puoi trovare, è piccola, la città vecchia la giri in un paio d’ore a meno di non fermarti in troppi di quei mille locali che stanno in riva al fiume, ma per l’aria che ci respiri. Che ci devi stare per capirla, questo misto di impero austroungarico e globalizzazione, di ricchezza da PIL a due cifre e muri sbrecciati della Jugoslavia che fu, e sotto una specie di tranquillità non indolente che in questi ultimi giorni di caldo viene fuori come una lucertola stesa a bersi una Lasko in santa pace. E allora mi cambio in fretta dopo i cinquecento chilometri di autostrada, e scendo in strada, costeggio il fiume fino ad arrivare a quello che chiamano il ponte triplo e qui sento questo profumo di caldarroste che non se ne andrà più per tutta la sera, un profumo che è come stare seduti davanti al fuoco del camino in piena estate, e non sudare.
19/09/2011
E’ qualche giorno che mi chiedo cos’ho che non va, visto che qualsiasi giornale abbia letto ha pensato bene di fare il titolo sul premier a tempo perso mentre io, leggendo la trascrizione, trovo dopo la frase incriminata un (ride) che mi cambia le carte in tavola, che mi fa pensare che santiddio almeno quella era una battuta che avrebbe potuto dire davvero chiunque – perché non hai risposto al messaggio, perché sai, a tempo perso lavoro. Poi lo so, scherzando si dicono spesso – pure involontariamente – le verità che non verrebbero mai fuori facendo un discorso serio, e in fondo quella frase dice ciò che pensiamo tutti, che per il PresDelCons quello del premier sia davvero un secondo o terzo lavoro funzionale all’esercizio di ben altre occupazioni, non ultima quella di collezionare numeri di telefono di femmine di ogni ordine e grado. Però non so, sento questa puzza di feltrotravaglismo che mi piace proprio poco, che poi è la puzza di un paese andato a puttane da molto tempo, molto prima che l’Uomo del Fare desse l’esempio col sigillo delle istituzioni.
16/09/2011
La giostra dei bambini gira, vuota, nella piazza sul mare dominata da quella grande sfera di metallo che nessuno nota più. La giostra ha un colore strano nel tramonto afoso, qualcosa che si avvicina a un porpora opaco. In cima, in corrispondenza di ciascun seggiolino, sta un piccolo specchio. Nel movimento rotatorio il mare si riflette e sparisce, per poi tornare e sparire fino a quando la giostra si ferma e il padrone, seduto nel suo bugigattolo a leggere la cronaca locale, decide di spegnere e staccare la corrente. Un uomo si ferma davanti alla piscina rotonda che avvolge la sfera, si toglie gli occhiali da sole e si specchia nell’acqua ferrosa. A pochi metri di distanza due operai finiscono di montare un palco sul quale dopo un paio d’ore si esibirà un cantante di scarsa fama. Sul marciapiede passano ragazzini in costume da bagno, e uomini in bermuda e sandali.
14/09/2011
Ieri sera da queste parti c’era gente che suonava trombe da stadio alla finestra e che girava in macchina per le vie del quartiere pigiando il clacson in segno di giubilo. Lo facevano perché una squadra di calcio aveva pareggiato una partita, che è come quando un paese si rallegra perché ha rallentato la crescita del deficit pubblico nel terzo trimestre dell’anno o la borsa rimbalza per uno o due giorni dopo una lunga discesa verso la Fossa delle Marianne delle quotazioni o qualcos’altro del genere, in fondo riuscire a vedere il bicchiere mezzo pieno è una bella dote anche se a volte ti rende un po’ patetico – ma basta girare la testa e non guardare gli altri negli occhi, in fondo.
10/09/2011
Le odio, le giornate così. Quelle che non tira un filo d’aria, e l’acqua ha questo colore schifoso, di ferro sporco, e sudi stando ferma, e le gocce ti colano dalla fronte sugli occhi e la sola cosa che vuoi è essere da un’altra parte, qualunque altra parte del mondo. Le odio, le giornate così. Quelle che Matilde non la si regge, che arriva al molo con una faccia che hai già capito, trascinando i piedi, e mi dice ciao solo perché siamo amiche fin dall’asilo. L’istruttore sta sulla sua barchetta, e grida solo a me perché sa che con Matilde è tempo perso, la schiena, Vittoria, la schiena dritta e niente carrello mi grida, senti il remo nella mano, fallo scivolare, dai Vittoria, la schiena, e io raddrizzo la schiena e faccio tutto il movimento che ho imparato a memoria, dai Mati dico con quel poco fiato che mi rimane e lei mi risponde dai un cazzo, che è quello che fa sempre quando è di questo umore. Oggi è colpa di quel tipo con cui si è messa un paio di mesi fa, mi ha raccontato qualcosa di malavoglia mentre ci cambiavamo, le ho chiesto io perché a volte farla sfogare serve a farla stare un po’ meglio, dice che ieri dovevano uscire insieme, poi lui e i suoi amici e niente, non si è nemmeno fatto sentire lo stronzo, insomma le solite cose. Che poi cosa dico le solite cose, come se io ne sapessi qualcosa. Dai Mati è l’ultimo rettilineo, le dico, e questa volta lei risponde lo so Vi, ci sono, e per dieci o venti colpi andiamo insieme, proprio insieme, col ritmo perfetto e il respiro identico e la barca vola su questa acqua di ferro sporco, per dieci o venti colpi dimentichiamo tutto, il caldo asfissiante e le gocce di sudore che ci rendono cieche e i richiami dell’istruttore, siamo solo io e Matilde e mi chiedo perché è così difficile non farci male, perché non ci riusciamo tutti i giorni con il bene che ci vogliamo. Quando fermiamo la barca passo la mano sulla fronte, e poi sulle palpebre chiuse, mi prendo qualche secondo per togliere l’affanno dal respiro. Sento la mano di Mati che spinge sulla spina dorsale, proprio in mezzo, hai sempre la schiena curva Vi, la sento dire, e non so se cercare il coraggio di dirle vaffanculo o mettermi a ridere e dirle che le pago un ghiacciolo.
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