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30/10/2011
La prima mattina di nebbia era una mattina di domenica, assonnata e confusa. Era una nuvola umida con la consistenza e il calore umido di una coperta di pile. Stette prima alla finestra, fino a quando gli occhi gli si riempirono di piccoli prismi colorati, poi si vestì con calma, si infilò un giubbotto leggero e uscì di casa. Camminò sul marciapiede, passò l’incrocio, attraversò il parco giochi, sfilò a fianco del ristorante cinese, sempre con le mani in tasca e la testa svuotata. Quando imboccò il lungo viale alberato alzò gli occhi verso il cielo. Era una nebbia luminosa, di quelle che lo facevano sentire a casa, che facevano percepire il sole invisibile su in alto, come nel primo autunno. Passò la grande entrata di pietra grigia, sentì i piccoli ciottoli della stradina scivolargli sotto i piedi, scese la scala scivolosa, si guardò intorno cercando il corridoio giusto e finalmente arrivò davanti alla lapide. Rimase per qualche minuto così, a fissarla, poi si mise a parlare a bassa voce, rivolgendosi a quella piccola fotografia sorridente, incorniciata in un ovale grande quanto un uovo. Raccontò della partita che avevano giocato su al campo della colonia alpina, del weekend che stavano progettando per la fine del mese – sai quello che c’eri anche tu, quello che hai guidato per trecento chilometri senza mai mettere la sesta dio solo sa perché -, della Juve e dell’Inter. In fondo al corridoio passò una signora anziana che si appoggiava a un bastone. Rimase in silenzio quando esaurì le cose da dire. Poi fissò la fotografia, mormorò vaffanculo senza rabbia, appoggiò due dita sul marmo e si voltò per tornare all’aperto. Forse, entro qualche ora la nebbia si sarebbe alzata.
27/10/2011
Quando esco dalla South Station di Boston la prima cosa che vedo è una tendopoli sorta durante la notte. Attraverso la strada, mi avvicino per capire chi ha deciso di prendere casa qui nei Dewey Square Parks, sotto i grattacieli del Financial District. Tra due alberi è stato tirato lo striscione “Occupy Boston”; su una panchina, a un paio di metri di distanza, stanno seduti due uomini in giacca e cravatta che si godono la pausa pranzo al sole. Tre poliziotti col giubbotto catarifrangente giallo chiacchierano, uno tiene le mani in tasca.
Faccio il giro di questo piccolo parco che in una notte si è riempito di decine e decine di tende. Molte sono canadesi da due posti, altre, quelle più grandi, fungono da centri di raccolta dei cartelli di protesta e dei materiali che i passanti portano come sostegno agli occupanti: cibo, posate, coperte, teli. Mi fermo a leggere i cartelli che ne segnano il perimetro: il capitalismo è schiavitù, le forze armate americane spendono ventiduemila dollari al secondo, le radici rivoluzionarie di Boston, ho passato otto anni nei Marines per proteggere i diritti delle persone e non delle banche, combatti i ricchi e non le loro guerre. Passa un ragazzo vestito con un saio bianco.
Più tardi andrò su occupyboston.com per capirne un po’ di più, ma nemmeno allora riuscirò a togliermi di quella sensazione di deja vu che mi ha preso guardando questa parata di giovani e non più giovani che dicono di rappresentare il famoso 99% della popolazione, la stessa sensazione che avverto quando passo in via Volturno a Roma, o davanti a uno qualsiasi dei centri sociali della città nella quale vivo. Non so se quello che parte da Wall Street e si allarga a Chicago e Boston e Los Angeles possa essere definito un movimento senza incorrere in tutte le tremende imprecisioni che distinguono gli stati nascenti. Dicono che sia composto in gran parte da ragazzi bianchi, acculturati e disoccupati; la destra americana li chiama anarchici, e forse è vero perché non si vedono segni di rifiuto del governo inteso come istituzione, ma piuttosto la convinzione che sia possibile autogovernarsi perché il popolo è più saggio dei suoi rappresentanti. Ed è questo che non cessa di lasciarmi perplesso, questa fiducia nella gente in quanto tale, nella famosa intelligenza collettiva, come se uno più uno facesse davvero tre e non, come tanto spesso capita, due meno qualcosa. C’è poi questo totem del novantanove per cento, come se il mondo occidentale fosse realmente diviso tra l’uno – chissà: un giudoplutomassocapitalista, immagino – che detiene tutte le ricchezze e gli altri che servono per arrivare a cento sui quali si scaricano debiti e povertà, come se quel novantanove fosse una cosa sola e non l’insieme di mille gruppi sociali ciascuno portatore dei suoi interessi regolarmente in conflitto con quasi tutti gli altri. Alzo gli occhi verso la cima dei grattacieli del Financial District, dove abita l’Uno, e li riporto verso la stazione che vomita passeggeri e le quattro corsie di Atlantic Avenue nelle quali si muovono i novantanove. In mezzo le tende dove una signora sui cinquant’anni sceglie il suo cartello come se fosse un paio di scarpe – mi donerà di più lo slogan sulle guerre dei capitalisti o quello sulla vita dei bianchi ricchi. Sul marciapiede una donna-sandwich indossa un pezzo di cartone sul quale sta scritto “Honk if you support us”: ogni tanto un automobilista diretto verso nord suona il clacson e alza il pollice, la donna ringrazia, dei novantanove novantasette apparentemente continuano la loro vita, business as usual.
[Appunti di quasi un mese fa]
26/10/2011
Quando lei gli disse che sarebbe andata via per qualche tempo e che non si sarebbero né visti né sentiti lui rispose solo se va bene per te allora va bene per me, poi la salutò con un bacio sulla guancia e cercò nella tasca le chiavi della macchina. Il giorno dopo telefonò alla migliore amica di lei e inventandosi una scusa traballante le chiese se per caso aveva le sue chiavi di casa, e se gliele poteva dare. Lei finse di credere alla scusa e gliele diede, decidendo di fidarsi, per sé e per la sua amica. Quella sera lui andò, armeggiò con le chiavi, entrò e si guardò intorno, accendendo prima la luce dell’ingresso e poi quella del corridoio. Stette così per qualche minuto, passò da una camera all’altra, osservando in silenzio prima di richiudere la porta e tornare a casa. Il giorno dopo tornò, alla stessa ora, si tolse il giubbotto, poi si mise al lavoro. Alzò le sedie e le appoggiò sui tavoli con le gambe che puntavano verso l’alto. Attaccò la spina e fece partire la lucidatrice che si era fatto prestare, muovendola lentamente e metodicamente. Tornò per altre due sere, piantò un chiodo che resse un piccolo acquarello che lei aveva lasciato appoggiato su una mensola, aggiustò un’antina del mobile del bagno, spolverò i vasi di cristallo e in uno di questi mise acqua e infilò un mazzo di fiori che aveva comprato lungo la strada. Una sola volta entrò nella camera da letto, e tutto quello che fece fu appoggiare su uno dei due comodini un bicchiere e una bottiglietta ancora chiusa. Passò e ripassò davanti al telefono della casa, vide la spia rossa della segreteria telefonica lampeggiare e girò la testa per togliersi qualsiasi tentazione. La sera che lei rientrò si rese conto subito che c’era qualcosa di diverso. Corse in cucina, e nel salotto, e in bagno, agitata e quasi impaurita. Poi vide i fiori, e la bottiglietta sul comodino, e credette di sapere che non aveva bisogno di telefonare ai suoi genitori o alla sua amica, tirò fuori dalla tasca dei jeans il cellulare e lo chiamò – rispose la voce metallicamente flessuosa della segreteria, non posso rispondere ma prima o poi richiamo, lasciate un messaggio, e lei non trovò parole.
25/10/2011
Io temo di essere prevenuto, quindi le proposte di Pippo Civati – quelle che il Post, con un certo sprezzo del ridicolo, definisce dieci posizioni su cose molto concrete, per chi chiede “i contenuti” – giudicatele voi. Io il vuoto, appoggiato su Alesina e Giavazzi e abbellito da ripetuti richiami all’accordo tra Confindustria e sindacati, non sono capace di commentarlo. E’ che non sono un fisico, diciamo.
Poi ci sono questi dieci minuti, magari un quarto d’ora, che si aprono le porte dell’ufficio e non c’è ancora nessuno se non il responsabile dell’amministrazione su al secondo piano, ma qui è ancora buio e silenzioso perché è presto e arriveranno tutti alla spicciolata durante il prossimo paio d’ore e ci saranno le cose di tutti i giorni quando siamo qui e non in giro, ci saranno le riunioni e le telefonate e i chi viene a prendere un caffè e le mani nei capelli e le risate isteriche e i suoni della campanella degli ordini grossi e i cambi delle prenotazioni dei treni e degli aerei, però adesso ci sono questi dieci minuti, magari un quarto d’ora che basta la lampada sulla scrivania, arriva Chiara e saluta con la sua voce bassa e mette su un po’ di musica a volume basso, fuori è tutto color piombo e questi dieci minuti, magari un quarto d’ora sembrano un lungo prendere fiato prima di mettersi ai blocchi di partenza.
24/10/2011
Ogni tanto leggo delle cose degli orfani di Jobs che provo pena per loro.
23/10/2011
La sala d’aspetto della rianimazione è piccola e illuminata da neon glaciali. Sulle panche siedono una dozzina di persone. Passano la gran parte del tempo in silenzio, come hanno fatto tutti i giorni per l’ultimo mese, ogni tanto qualcuno dice una frase qualsiasi a mezza voce. Due uomini escono nel cortile. Restano in maglione, nonostante il freddo tremendo di una notte di un gennaio più rigido del solito, a guardare le luci notturne degli altri reparti. Quando rientrano uno dei due cerca nel taschino dei jeans qualche moneta e si avvicina alla macchina del caffè mentre in un angolo della sala un uomo che non si è mai alzato dalla panca metallica fissa la porta che conduce alle sale di rianimazione, abbassando poi gli occhi sul telefono che tiene in mano. Ai muri sono attaccati dei manifesti colorati. Una delle donne si liscia nervosamente una piega dei pantaloni di velluto. Poco prima dell’una di notte la porta si apre. Un’infermiera, con la mascherina abbassata sotto il mento, li guarda con la meccanica empatia di chi ogni giorno vede la gente morire. Chi vuole salutarlo può entrare, dice. Poi aggiunge, accorciando le parole, sarebbe meglio subito, questa volta non c’è più tempo. L’uomo che fissava la porta si passa una mano sugli occhi, riprende il telefono e scrive un messaggio.
22/10/2011
Non fumo. Penso di aver acceso, in tutta la vita, non più di un paio di dozzine di sigarette, la gran parte delle quali scroccate per noja ai compagni del Secondo Squadrone Carri del Savoia Cavalleria. Nessuna particolare riflessione salutista, nessun problema di spesa: è che non mi piace, tutto qui. Eppure, di tanto in tanto, mi capita di sentire il profumo che viene dall’accensione di una sigaretta di qualcuno nelle vicinanze, proprio i primi due tiri, e mi pare buonissimo, come quello del pane appena sfornato – l’altra sera ero appena sceso dal treno e un signore aveva appena acceso quel piccolo cilindro che probabilmente aveva desiderato per le tre ore precedenti e io mi sono fermato ad annusare come se fosse odore di mare la mattina presto, una cosa che avrei voluto fermare qualcuno e dirgli senti anche tu, lo senti che buono – è una cosa scema, lo so.
20/10/2011
Non se lo ricordava come aveva iniziato, forse con la pistola di suo padre trovata in un cassetto. Una volta che spari a qualcuno, poi hai due sole strade, a meno che tu non sia un poliziotto: o non lo fai più perché il solo pensiero ti fa salire un’angoscia che non riesci nemmeno a descrivere, o ci prendi gusto, e spari ancora. A lui piaceva farlo così, a caso, mettersi quel piccolo pezzo di ferro nella tasca del giubbotto, salire in bicicletta, entrare nel parco e sparare a un impiegato che portava a passeggio il cane, senza un motivo, per il solo piacere di schiacciare il grilletto e sentire quel botto, senza nemmeno curarsi più di tanto di essere visto da qualcuno. Non ci pensava. Lo faceva e basta. Sulla faccia delle persone che ammazzava non si disegnava né l’orrore né l’incredulità: semplicemente non facevano in tempo, lui si avvicinava e in un secondo, quando era a un metro di distanza, tirava fuori la pistola e colpiva. Faceva sempre centro, era bravo. Teneva una specie di contabilità, ma lo faceva a mente, non prendeva appunti, non segnava tacche sul muro o sul calcio della pistola. Un giorno semplicemente si stufò, alle sette di un mattino nebbioso fece secco un quarantacinquenne che faceva jogging prima di andare in ufficio, poi si avvicinò al laghetto dove i bambini andavano a buttare le tartarughe che non potevano più tenere a casa, gettò la pistola nell’acqua limacciosa e andò a bersi un caffè.
18/10/2011
Da qualche tempo, per motivi di lavoro mi sono rimesso a studiare. Studiare proprio, non quel generico “tenersi informati sulle ultime novità”, l’aggiornamento via Google Reader che facciamo passare come formazione professionale. Studio, una cosa fatta di libri*, appunti, schemini, ripassi mentali, collegamenti, esposizioni. E niente, la fatica che ho fatto e che sto facendo mi ha fatto tornare in mente un po’ di pagine di Baricco, quelle sulla mutazione genetica che ci ha portati – un po’ tutti – a preferire il sapere un po’ (poco) di molte cose restando sempre in superficie al sapere molto di poche cose scavando nella loro profondità, e ancora non ho capito se questo è un bene oppure no, o se semplicemente le cose vanno così e se ne prende atto, e amen.
*Oddio, sì. Pare impossibile, vero? E invece tu pensa, su Internet non si trova proprio tutto tutto tutto.
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