Greetings from Boston – North End
Mi fermo a leggere la targa che commemora i caduti in guerra del North End – che è come se a Roma ce ne fosse una che ricorda quelli di San Giovanni, o a Milano una in memoria di quelli del Vigentino; perché North End è una zona, un quartiere, una parte della città. Comunque. Sono tutti nomi italiani, tutti tranne un paio. Già, perché questo era, e sembra essere ancora, il quartiere degli italiani. Mi piace che non l’abbiano chiamato Little Italy anche se sarà tre volte più grande di quella ormai rinsecchita di New York. E’ una zona molto bella, e bisogna sforzarsi per convincersi di essere negli Stati Uniti. North Square la potresti trovare nelle Marche, o in Umbria, con la sua chiesa del Sacro Cuore e gli alberi mediterranei e l’acciottolato chiaro e sconnesso. Però. Tutte le Little Italy che ho visto – Mulberry Street a New York, Old Town a San Diego, Columbus Avenue a San Francisco – si assomigliano tutte. Chiese e ristoranti, chiese edificate dagli emigrati dove pregare il proprio Dio, lo stesso degli irlandesi e dei polacchi, eppure venerato col marmo di Carrara, ristoranti, quelli dove “taste the typical Italian cuisine” e chissenefrega se in una carta di “contemporary Sardinian food” trovi la pasta alla Norma e le lasagne alla bolognese. Dio e cibo, dappertutto, come se i soli segni esteriori che abbiamo lasciato in una nazione nella quale siamo arrivati a milioni fossero le conferme degli stereotipi sul nostro conto (è che forse gli stereotipi sono come i luoghi comuni nella lingua, concetti banali e ritriti perché ripetuti un milione di volte, ripetuti un milione di volte perché, in fondo, veri). Continuo su Hanover Street, arrivo fino all’Holocaust Memorial. Nello spazio dedicato a Auschwitz-Birkenau trovo un passo di Primo Levi e, non so bene perché, me ne sento orgoglioso, penso “ecco, vedi, ci siamo anche noi, e questa non è pizza, non è mafia, non è segno della croce, non è mandolino”.