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29/03/2012
Cammino lungo il corridoio, le pareti viola sulla destra e questa specie di separé sulla sinistra, con le poltroncine blu attaccate alla parete, lo spazio per la bara in mezzo e una grande vetrata che dà sul resto del cimitero. Fa caldo. Sulle porte c’è un cartello, “Sala del commiato”, e in effetti è quello che faremo tutti tra poco, una mano sopra il legno, magari l’indice che indugia per un secondo o due nell’incavo di una vite, e poi “ciao”, con il tono assurdo del ci vediamo domani, e uno aggiunge “ciao, pistola” prima di affrettare il passo e ricacciare le lacrime in gola perché loro erano quello, ragazzi che parlavano milanese, adesso che siamo tutti manager e account e developer e expert quel saluto sembra venire da un altro mondo e da un’altra vita, peccato che qui di vita ce ne sia una in meno però dicono che tutto si eterna nel ricordo e allora proviamo a crederci che la città dei lampioni a gas e dei navigli scoperti e dei fontanili sia ancora qui, lei e quelli che la abitavano, non è vero che non ci sono più, guardali, siamo a Lambrate, Milan l’è on gran Milan, cosa importa se a me questa collinetta verde con un albero enorme ricorda un cimitero della Georgia sulla strada per il Tennessee, c’è il silenzio e l’aria tersa di via Mar Jonio nel millenovecentocinquanta anche se la tangenziale la puoi quasi toccare con la mano da tanto è vicina, la tangenziale che ci serve a tornare a casa, oppure ad andare ad un appuntamento in Bicocca, ma non ti preoccupare che ci vediamo domani, “ciao, pistola”.
[In memoria del Franco, con l’articolo davanti, ché a Milano si fa così, e così sarà nei secoli dei secoli]
28/03/2012
Il lungomare di Pesaro alle tre del pomeriggio è una striscia di ragazzi che si schizzano l’acqua intorno alla palla di metallo di Pomodoro, una giostra per bambini ferma in attesa delle babysitter, un cane che corre. Salutiamo il cliente, ci attacchiamo ai telefoni, rispondiamo alle mail, scusa puoi ripetere. Ci fermiamo per tre, quattro minuti su una panchina, io non mi siedo nemmeno, ci sono altre tre ore abbondanti di macchina per tornare prima in ufficio e poi a casa, preferisco stare in piedi. Una signora anziana ci guarda come se fossimo alieni, come se fossimo più alieni noi dei due ragazzi che stanno dormendo incastrati sopra i tetti degli spogliatoi che fanno da divisorio tra la spiaggia e il marciapiede, incrociamo gli sguardi e le vorrei dire scusi il disturbo, adesso ce ne andiamo così lei rimarrà tranquilla a godersi il sole e il caldo e non dovrà restare qui a sentire i nostri discorsi da dementi, gli affanni, le corse da cittadini del terziario avanzato, e poi lo sappiamo anche noi che agli altri i nostri problemi mica interessano, una volta ti stanno ad ascoltare, anche due, forse tre, poi è meglio lasciar perdere, scusi ancora signora, ho bisogno di ricaricare il telefono mi dice, il cavetto usalo tu adesso, quando ci fermiamo a far gasolio ci diamo il cambio.
26/03/2012
Era iniziato tutto senza un motivo particolare: una sera si era messo a letto, aveva sfogliato qualche pagina di un libro, poi aveva spento la luce. E in quel momento, nel buio della stanza con le finestre oscurate dalle tapparelle abbassate, aveva provato una sensazione che non avrebbe saputo dire se fosse ansia, paura, angoscia o terrore, ma che gli fece comunque compagnia fino al mattino successivo. Non gli diede peso, una notte insonne capita a tutti in fondo, la sera dopo basta mangiare leggero, prepararsi una tisana, guardare un documentario e andare a letto tranquilli per recuperare quel che si è perso. Fu proprio quel che fece, mangiò leggero e si preparò una tisana e guardò un documentario e andò a letto tranquillo, fino a quando spense la luce e provò ancora quella sensazione alla quale non sapeva dare nome. Iniziò così, senza un perché, a non poter più dormire se non lasciava la luce accesa, cambiò la posizione nel letto per avere sempre di fronte agli occhi la finestra dalla quale poteva vedere il chiarore della notte illuminata dai lampioni e dai semafori e dai fari delle macchine che andavano e tornavano dall’autostrada, senza averlo deciso smise di andare a lavorare usando la metropolitana perché non riusciva a sopportare quei cinquanta secondi di tunnel buio tra una fermata e l’altra, e smise anche di fare straordinari perché questo voleva dire fermarsi in ufficio quando l’unica luce che rimaneva accesa era quella della lampada da tavolo che si era comprato per poterla usare anche in pieno giorno, sostituì tutte le plafoniere del suo appartamento con lampadari a quattro faretti, così da non rischiare di rimanere al buio quando una lampadina si fosse fulminata, insomma eliminò l’oscurità dalla sua vita per non sentirsi mancare il fiato e stringere lo stomaco e girare la testa quando non c’era luce intorno a sé.
La mattina che seguì il grande black-out, quello che fece spegnere i lampioni e sciogliere il ghiaccio dei congelatori e fermare gli aerei e abbaiare i cani e gridare i bambini e reso felici i ladri, la sua vicina di casa lo trovò accartocciato in mezzo all’aiuola nella quale si era gettato dal sesto piano, con le ossa rotte che lo facevano assomigliare a una vecchia bambola e un accendino ancora stretto nel pugno della mano destra. La donna corse sull’erba che aspettava di essere tagliata e che aveva attutito il colpo dell’impatto di quell’asteroide umano caduto da un balcone al punto che nessuno si era accorto di niente, gli girò la testa e vide che il volto era bruciato tutt’intorno agli occhi, solo lì, e non seppe mai, né mai potè immaginare che lui con quell’accendino si era fatto luce, e tale era il terrore che lo aveva preso quando la centrale elettrica aveva smesso di funzionare che la luce se l’era portata agli occhi, dentro gli occhi, senza sentire dolore quando la pelle aveva iniziato a bruciare e le pupille a liquefarsi, anzi provando l’infinito sollievo che gli mise in faccia quel sorriso assurdo, il sorriso di uno che non avrebbe mai più avuto paura nella sua vita, il sorriso incomprensibile che lei fissava e che avrebbe rivisto ogni sera cercando di addormentarsi fino a quando non fu più capace di sopportare il buio e fece in modo di vivere in una eterna lattiginosità che affogasse qualsiasi ricordo, qualsiasi paura, e quel sorriso.
23/03/2012
C’è chi non sa vincere, c’è chi non sa perdere. Poi ci sono i fuoriclasse, che non sanno fare né l’una né l’altra cosa.
19/03/2012
Durante l’orario di visita nella camera ci sono troppe persone e poche sedie. Alcuni stanno in piedi, girando intorno ai letti. Una donna grida, ogni pochi secondi, come se un qualche programma la attivasse seguendo una tabella invisibile, grida senza sosta, piegata su un fianco con gli occhi chiusi come la sua compagna di stanza. Due poliziotti siedono annoiati curando una porta dalla quale ogni tanto esce un uomo che si regge sulle stampelle e che prova a iniziare una conversazione che loro non hanno voglia di fare. Di tanto in tanto uno dei due si sgranchisce le gambe percorrendo il lungo corridoio, mentre l’altro accavalla le gambe prima in un senso e poi nell’altro. Alla fine del pomeriggio si forma la fila per gli ascensori in discesa, qualcuno con il mezzo sorriso di chi pensa di aver fatto una buona azione, qualcuno con le spalle curve e gli occhi gonfi.
16/03/2012
C’è un momento, quello che arriva subito dopo mesi di lavoro e weekend di tabelle costi e ricavi e conference call e migliaia di chilometri e alfabeti strani e bestemmie e triangolazioni e for anything please, please call me, anytime, twentyfourseven, c’è un momento in cui arrivi e parcheggi e guardi il display del BlackBerry e vedi che hai novanta minuti di tempo e allora ti siedi a un tavolino in riva al fiume in mezzo agli studenti, e ordini una birra fredda – the big bottle, please – e guardi in giro, verso l’alto dove c’è il castello, a sinistra dove c’è il ponte dei lucchetti, oggi fa caldo, ci sono le prime ragazze sbracciate e poi ti alzi e rimetti gli occhiali da sole e spingi le mani in tasca e cammini, anzi ciondoli per perdere un po’ di tempo, c’è un momento in cui cerchi di sgombrare il cervello e fai un lungo respiro, butti dentro tutta l’aria che puoi perché tra poco ne avrai bisogno in quella sala riunioni, c’è un momento nel quale sospendi tutto, ma quello cos’è, un cappello di tela viola alto sei metri, beh è fantastico, c’è quel momento lì, quello che arriva subito dopo tutto questo e appena prima di inginocchiarti e puntare i piedi sui blocchi di partenza, quel momento che ti senti quasi in colpa perché ti pare che lo stai rubando, ché non sei venuto qui per quello – mi sa che è ora, eh, si va? si va.
15/03/2012
Non so voi, io di vesti strappate e petizioni in nome del “la libertà di espressione, la democrazia, la voce fuori dal coro” per la chiusura del Riformista non ne ho viste.
14/03/2012
Alla fine non so cosa più sconfortante o ridicolo nella storia di Greg Smith che annuncia via New York Times le sue dimissioni da top manager di Goldman Sachs, se la raffigurazione di un’azienda tanto miope quanto avida, o quella del tutto speculare di clienti così stupidi da farsi fregare non una ma cento volte in serie, o il bene-bravo-bis rivolto al pentito di turno che se ne va sbattendo la porta come se un signore nella sua posizione non fosse colpevole quanto e più di tutti gli altri da lui accusati di violazioni di quell’etica in nome della quale si allontana sdegnato e sussiegoso – che a ben vedere ci sarebbe da dire ce la meritiamo Goldman Sachs, oh se ce la meritiamo.
08/03/2012
Prendo la via che mi porta all’albergo. Davanti a me camminano due uomini, uno porta sottobraccio un corno, o forse un flicorno, e a tracolla un grosso tamburo, l’altro ha due corni, uno per braccio, uno grosso, molto grosso. Camminano quasi piegati dal peso degli strumenti e mi pare di rivedere quei suonatori di guitaron di Tijuana che alle dieci del mattino andavano lenti verso le vie dei ristoranti per iniziare la loro giornata lavorativa, hanno gli stessi capelli scuri, la stessa corporatura un po’ tozza, la sola differenza sta tra la luce lancinante di una mattina dell’ottobre messicano e il crepuscolo del marzo sloveno, per il resto sono lavoratori della musica di strada che si guadagnano il pane suonando quella che i turisti vogliono credere sia la musica tradizionale del luogo, Avenida de la Revolucion e Presernov Trg. I due uomini si fermano, un terzo viene loro incontro e prende con sè il tamburo, io gli passo accanto, gli ottoni brillano sotto la luce dei lampioni già accesi e dell’insegna di un locale dal nome inglese. Ridono, non sembrano stanchi, forse hanno avuto una buona giornata, hanno guadagnato bene qualunque cosa questo voglia dire. Si fermano a parlare, con i loro strumenti sotto braccio.
06/03/2012
La mia dietologa di riferimento si chiama Guia Soncini, la quale a sua volta ha una manciata di dietologi di riferimento tra i quali campeggiano Oprah Winfrey e Roberta Jannuzzi, tutti abbastanza improbabili da essere perfettamente credibili. Se avete un Kindle e poco meno di tre euro da investire, la mia dietologa di riferimento ha scritto un bel libriccino che fa capire come salvarsi il girovita sia soltanto questione di avere sufficiente tigna da obbligarsi ogni giorno che Dio manda in terra a magnare de meno * – ed è per questo che uno su mille ce la fa, e gli altri novecentonovantanove devono rassegnarsi a un armadio per ogni taglia della loro (giro)vita.
* Nel caso siate uomini, spiega pure quanto sia inutile per noi che non abbiamo uno straccio di idea di cosa sia una taglia ** cercare di capire le donne e la loro lotta quotidiana contro la massa grassa: voi comprereste mai un abito per come cade bene sulla stampella?
** (ed è il motivo per cui viviamo incoscienti e felici)
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