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28/09/2012
Se non l’avete già fatto, guardatevi i quattro minuti e trentasei secondi di questo video, e concentratevi sulla faccia e sulla voce di Matteo Renzi, il deejay in maglia viola (la Juve ha Linus, la Fiorentina ha lui). Era un po’ che ci giravo intorno, poi ho capito – Renzi non è simpatico, fa il. E infatti, come gli dici che la playlist ecco, insomma, mette il broncio e si offende. Il prossimo passo è quello di dar del coglione al prossimo suo, come un PresDelCons di recente memoria, e confido che arriverà presto.
25/09/2012
In questo momento sulla mia scrivania stanno un busto di Tito, un busto di Mao, una mug con il Grande Timoniere che guida il festante popolo cinese*. Ogni tanto passa gente di provata fede anticomunista, si ferma a guardare e dice “no, ma sono troppo belli” – la stessa gente che mi chiede di portargli souvenir comunisti da Shanghai, la stessa gente che spende cifre inenarrabili al Dong Tai Lu Antique Market oppure al Propaganda Poster Art Centre per comprare qualsiasi tipo di memorabilia della Rivoluzione Culturale, la stessa gente che cerca le bancarelle dei rumeni al Checkpoint Charlie per portarsi a casa un cappello da VoPo – insomma, ci siamo capiti. Cosa ci sia nell’iconografia comunista che sia capace di attirare quasi chiunque non lo so, perché è ovvio che non ha a che fare con la fede politica: e se vi è capitato di guardare qualche mostra di pittura sovietica degli anni Quaranta avete già escluso anche la motivazione artistica, almeno quella basata sugli stessi canoni estetici che vi fanno apprezzare Raffaello e Keith Haring. Insomma, quale sia il motivo io non lo so, so solo che non mi è ancora capitato di vedere gente che al polso porta un orologio con l’effigie di Ronald Reagan, forse la sconfitta della storia fa il paio con la vittoria nell’immaginario collettivo, chissà.
* Più un bicchiere di Dick’s Last Resort di Boston, un bicchiere della Sam Adams Brewery – sempre di Boston -, una ball of suggestions, una confezione di sei matite Union Jack, una confezione di Bic a forma di Bic, altre sette mug, un bicchierino di vetro per grappa preso a Ljubljana al Mir Festival, due matrioske, una bambola voodoo presa a New Orleans, una bottiglia di Stella Artois “Lions Festival Special Edition”, due bandiere scozzesi, un elefantino in alabastro, due piccole piramidi, un’ottava mug a forma di testa di beduino presa nell’aeroporto di Dubai, una sfera luminosa, una confezioni di dieci microbottiglie di “Storica Nera” (è una grappa, eh), un pupazzo di Stuart Little dimenticato dalla precedente proprietaria della scrivania. Forse dovrei farmi visitare da uno bravo.
20/09/2012
Tutto sommato, credo che il Bund sia la più bella via del mondo, almeno di quello che ho visto io, più di qualsiasi via italiana, più della Fifth Avenue, più del Royal Mile, più degli Champs Elysées. Non mi viene facile spiegare perché, se sono i palazzi coloniali di Zhongshan East Road o le centinaia di migliaia di persone che percorrono l’eterno lungofiume dalla statua del sindaco – quello che avevo scambiato per Mao, si vede che per avere la carica bisognava assomigliargli – verso l’Hotel Indigo e oltre ancora, se è la visione dello skyline di Pudong con i grattacieli altissimi e coloratissimi o se sono i galeoni illuminati come alberi di Natale che portano i turisti lungo lo Huangpu, se è tutto questo o altro ancora non lo so, e in fondo importa poco. So che mi piace camminarci, guardare le luci, passare alle spalle delle coppie che si scattano fotografie, fare no con la testa alle cento offerte di lady-sex-massage, fissare la nebbiolina di umidità e inquinamento fino a quando ho le stelline negli occhi. E so che mi piace tornare in Nanjing Road, tenere il marciapiede di destra ed entrare al Fairmont Peace Hotel, che viene dritto da un’altra epoca e un altro mondo, guardare le magnifiche foto in bianco e nero che mostrano Duke Ellington e Louis Armstrong e Benny Goodman viaggiare spesati dal Dipartimento di Stato in India e in Pakistan e in Iraq quando ancora si credeva che la musica e l’arte fossero qualcosa di cui essere orgogliosi al punto da usarle come strumenti di diplomazia, immaginare Churchill che scende dalle scalinate di marmo, mi piace fermarmi a fare quattro chiacchiere con la ragazza vestita di nero che mi chiede would you like to drink something sir, risponderle che sono qui proprio per quello, sorridere quando mi saluta con le sole parole di italiano che conosce – ciao bello -, mi piace entrare al bar del Fairmont Peace che una volta si chiamava Cathay Hotel e sedermi a un tavolo d’angolo e chiedere un Singapore Sling e ascoltare questo gruppo di anzianissimi jazzisti cinesi suonare qualsiasi cosa gli passi per la testa – l’altra sera han fatto persino un pezzo dei Beatles e gliel’ho perdonato perché questi sei uomini hanno l’immenso e salvifico potere di chiudere il resto del mondo fuori dalla sala fatta di legni scuri e vetri antichi, e tutti aspettano il momento in cui i fiati si alzano in piedi e suonano le percussioni e ti pare di vedere il maestro di Karate Kid, solo con le maracas in mano, e giri la testa verso l’entrata, e ti dici adesso entra la Hayworth e allora sì che muoio felice.
All’incrocio tra Xizang Lu e Jiujiang Lu siamo in tanti, fermi ad aspettare che il semaforo torni verde. C’è il solito caldo appiccicaticcio e inquinato di sempre, e le folate di aria che vengono dal canalone pedonale di Nanjing non fanno altro che alzare sudore e gas di scarico. Porto gli occhi verso il basso. Là in mezzo guardo un piede di donna, vestito da una scarpa elegante, tacco alto ma non troppo, che regge il peso di uno scooter rosso con una ruota in strada e una sul marciapiedi. Alzo gli occhi, seguo la gamba della donna, la gonna nera poco sopra il ginocchio, la camicetta bianca, la borsa, la pettinatura curata – potrebbe essere una middle manager, una executive assistant, una qualsiasi tra le quasi venti milioni di persone che vivono qui che ha un biglietto da visita stampato su due lati, uno scritto in cinese e l’altro in inglese, una con un appartamento né grande né piccolo, con uno stipendio abbastanza buono da potersi pagare dei buoni vestiti, un parrucchiere, un ristorante, un fitness club, un biglietto di un treno ad alta velocità. Riporto gli occhi in basso, a pochi centimetri da quel piede ce ne sono altri due, di uomo, distesi su un fianco, neri di uno sporco ormai preistorico, tagliati, pieni di croste. Muovo lo sguardo in orizzontale, verso sinistra, seguo la linea di un pezzo di tela che un tempo era un pantalone, poi all’altezza del ginocchio non vedo più nulla, il corpo sdraiato per terra al semaforo tra Xizang e Jiujiang scompare in mezzo alle cento, duecento, mille persone che aspettano il verde del semaforo e il fischio del vigile urbano per muoversi andando a ricreare l’ennesima immensa fiumana che riempie ogni centimetro della città. Il semaforo cambia colore, il vigile urbano fischia, la punta del piede della donna spinge quel tanto che basta per muovere lo scooter verso il centro della strada. Mi muovo anch’io, e i piedi dell’uomo spariscono nella folla.
19/09/2012
Per andare a Wuxi prendiamo la linea 2 della metro di Shanghai, partendo dalla fermata di People’s Square, che alle otto del mattino è solo incredibilmente grande e affollata. Arriviamo fin quasi al capolinea, alla stazione di Hongqiao, che alle nove del mattino è solo incredibilmente sterminata e occupata militarmente da file britanniche di passeggeri in attesa che le porte di accesso ai binari sulle quali campeggia la scritta “No ticket no boarding” si aprano, per chiudersi rigorosamente tre minuti prima della partenza del treno. Guardiamo i centotrentacinque chilometri di cavalcavia, grattacieli, paludi, alberi e pagode scorrere in trentadue minuti netti. Scendiamo a East Wuxi, do un’occhiata veloce a Wikipedia e apprendo che stipate in milletrecento per chilometro quadrato nel distretto locale abitano poco meno di sei milioni e mezzo di persone – chiedo al mio collega se aveva mai sentito nominare questo posto che è più popolato di diciannove delle venti regioni italiane e lui mi guarda come per dire “secondo te? hai idea di quante città così ci siano in Cina?”. Arriviamo a Xinqiao Town negli uffici dell’azienda con cui abbiamo appuntamento, un gruppo tessile che si è costruito un headquarter a somiglianza del Reichstag e ha pure una propria bandiera rossa con un cerchio bianco che contiene una scritta nera, che a vederla da lontano mossa dal vento ci impieghi un po’ a realizzare che non è una svastica. Il proprietario è un signore che ama i cavalli, e quindi per suo diletto si è costruito una struttura da dressage, adornata da tre sobri mulini a vento più grandi di quelli di Kinderdijk, che si è meritata un qualche posto sul Guinness dei primati. E’ tutto, tutto, tutto enorme, tutto quello che vediamo in questi giorni è enorme, i suoni che sentiamo sono enormi, il traffico che ci blocca è enorme, la quantità di gente che passeggia sul Bund è enorme, i quartieri popolari sono enormi, è enorme il nostro stupore anche se entrambi ci siamo già stati da queste parti – e loro, i cinesi dico, passano davanti a tutto questo apparentemente indifferenti, senza orgoglio, senza we are number one, come se tutto fosse solo la necessaria e inevitabile conseguenza della loro semplice esistenza sulla terra.
18/09/2012
Siamo al quarantasettesimo piano del grattacielo nel quale alloggiamo questa settimana. Sono le undici di sera e guardando fuori dalle vetrate del disco volante messo in cima al palazzo mi ricordo una sera in cima alla Sears Tower di Chicago, fuori c’era lo stesso panorama, grattacieli, nuvole, aerei in atterraggio e le lunghissime serpentine rosse e bianche di macchine ferme là sotto, qualche centinaio di metri più in basso. Questo albergo porta il nome di New World, e immagino che il nuovo mondo sia la Cina nella quale è stato costruito, quella fatta dai diciannove milioni di persone in mezzo alle quali ci muoviamo faticosamente tra clacson, motorini, vetrine scintillanti, poliziotti che marciano al passo dell’oca, offerte di prostitute, hi-tech park, ideogrammi, smartphone, e mi chiedo quanto sia davvero diverso, questo nuovo mondo, da quello vecchio che dovrebbe o vorrebbe sostituire – la band del bar del disco volante ha appena finito “Bette Davis Eyes” e attacca “Sultans of Swing”.
15/09/2012
Qualche giorno fa cercavo roba nell’hard disk, e mi sono trovato a guardare inebetito dei file dei quali avevo perso memoria: le tesi congressuali di Bersani, Franceschini e Marino. Credo di essere uno dei quindici italiani senza incarichi o tessere di partito che abbia avuto il masochistico fegato di leggersele. Dovessi dire perché lo feci, potrei solo rispondere “per capire che non c’é niente da capire”, aggiungendo in chiusura che fu “una cosa divertente che non farò mai più”. Poi immagino che ci ricascherò, se non altro per l’imbarazzo autoinflitto del sentirsi uguale in tutto e per tutto agli avventori del bar dell’Esselunga dopo una vita passata a costruire il complesso di superiorità basato sul “ragiona, usa la testa”. Epperò, al termine dell’estate e all’inizio della tournée di Renzi, dopo un’infornata di libri, dotte prolusioni via YouTube, interviste e saggi e post e tweet, dopo aver guardato in faccia un libro di foto segnaletiche di dirigenti di ogni ordine, grado ed età che hanno tutti – tutti – passato la loro stagione di destra liberista finendo poi, dieci o vent’anni dopo, per distinguersi solo tra coloro che nelle ricette della terza via blairiana credono ancora fuori tempo massimo e quelli che puntano il dito sul loro fallimento omettendo di ricordare il loro personale e convinto sostegno perché grazie a Dio c’è sempre qualcuno di più vecchio e onusto di gloria al quale chiedere di farsi da parte, dopo un’estate così e prima di un autunno che non si prospetta meno denso di chiacchiera vanesia, guardando quei file vorrei solo dire il mio voto ve lo darò lo stesso, l’ho sempre fatto, continuerò a farlo, ma percaritadiddio state zitti, tutti, vi conosco troppo bene e da troppo tempo per credervi ancora, per credervi davvero.
12/09/2012
Non so che fine abbia fatto, se sia caduto scheggiandosi irreparabilmente o se sia rimasto vittima, magari involontaria, di uno dei repulisti che ogni tanto si fanno nelle case per respirare, cambiare, guadagnare spazio da riempire di ogni cianfrusaglia nei giornie mesi e anni a venire. Era uno dei miei primi ricordi, un posacenere di metallo scuro, quasi nero, che raffigurava il Duomo di Colonia. Stava su un tavolino, in un angolo del salotto di casa. Lo aveva portato mio zio, uno dei molti fratelli di mio padre, un souvenir dalla città dove era andato a vivere – prima il Canada, poi la Germania (o forse viceversa: ma in fondo, se non ti fermi, l’ordine conta poco) -, regalato al fratello e alla cognata a dispetto del loro non essere fumatori: ma erano altri tempi, quando non ci si doveva vergognare di tenere in casa un oggetto come quello. Mio zio, questo zio, l’ho conosciuto solo dopo il suo ritorno in Sardegna, e ricordo che da bambino rimanevo affascinato a guardare questa macchina che si era portato dalla Germania come una specie di prova che lui c’era stato per davvero, credo fosse una Ford Taunus, aveva ancora la targa originale e pareva enorme se confrontata con la nostra 500L. Poco fa sono uscito dalla stazione e sono entrato nel Duomo, e guardando la bellezza paurosa e rasserenante di questo gioiello – i colori delle vetrate, la perfezione delle colonne – mi sono chiesto per la millesima volta quale motivo abbia portato mio zio a lasciare questo posto e tornare al paese, rispondendomi per la centesima volta che partenze e rientri spesso non sono voluti, sono figli bastardi del caso e del bisogno e per questo non vanno giudicati; allora esco e cammino per Altstadt fino a tornare in riva al Reno dove rimango a guardare i ponti e le chiatte lunghissime, e per quanti sforzi faccia non riesco a non pensare che se mio zio si fosse fermato qui a Colonia riuscirei a vederlo più spesso di quanto non succeda nella vita vera, e oggi andrei a mangiare a casa sua, ci scambieremmo le notizie di casa, lui parlerebbe con l’inconfondibile accento degli emigrati di lungo corso, mi offrirebbe un bicchiere di vino sardo che io berrei senza dirgli che avrei preferito la Kolsch da 0,20 che si beve qui e forse faremmo una passeggiata in centro, fino al Duomo, e lo guarderemmo, lui come si fa con le cose di casa, e io ricordando un posacenere.
La banchina si riempie poco alla volta, i passeggeri scendono dal terminal per andare a prendere il treno che li porta chi in centro a Colonia, chi nel quartiere fieristico, chi alla Hauptbahnof. Sto nel mezzo del quasi-silenzio efficiente e rassicurante della Germania urbana, quella dei marciapiedi puliti e dei treni in orario, quella dei luoghi comuni. Aspetto il mio treno, e mi rendo conto che non sento odori – non li sento perché non ci sono, è come essere sottovuoto, non si sentono la polvere e i binari e il sudore e la carta e gli hot-dog, tutte cose che un odore ce l’hanno e quando stanno insieme ne fanno uno inconfondibile, credo che sia la prima volta in vita mia che sto su una banchina avendo la sensazione di stare, non so, nella sala d’aspetto di un medico, scavo nella memoria alla ricerca delle altre stazioni tedesche che ho usato, Monaco, Norimberga, Friedrichshafen, questa fa eccezione ma nessuno sembra notarlo, in fondo ognuno ha la sua normalità.
11/09/2012
Qualche sera fa ho salutato questo vecchio amico che sta per partire, mandato a lavorare negli Stati Uniti per qualche anno – lui che mi augurava buon viaggio per Shanghai, io che consultando mentalmente l’agenda gli dicevo ok, allora ci vediamo ad Ann Arbor tra un mesetto, ed entrambi avevamo nella voce solo un filo di sorpresa, come se nel tempo ci fossimo abituati all’idea che questo muoversi da una parte all’altra del mondo (e nel suo caso addirittura cambiare completamente vita) e trovarsi agli antipodi per andare a cena sia una cosa non troppo lontana dal normale – poi parlo al telefono con mia madre, la figlia della donna vestita di nero che si fermò allibita davanti a una scala mobile chiedendo cosa mai fosse quella biscia di metallo che usciva dal pavimento, la donna che ogni settimana mi chiede sei a Milano in questi giorni e dice ossignore ogni volta che le rispondo elencandole il viaggio dell’indomani, e allora mi rendo conto che no, che ci vorrà ancora un po’ prima che tutto questo sia davvero normale al punto da non parlarne nemmeno più.
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