Zwei unbekannte Soldaten
Sto sfogliando le pagine del “Piccolo” di Trieste, unico cliente di una trattoria di Opicina. C’è una pagina intera scritta da Paolo Rumiz, seguito di un articolo precedente “sull’ingiusto oblio dei Caduti e combattenti triestini, goriziani, istriani, fiumani e dalmati in divisa austro-ungarica nella prima guerra mondiale”. Lo leggo mentre finisco il mio quarto di bianco, faccio due conti veloci, quanto dista Prosecco, a che ora posso arrivare a Milano, quanto tempo posso impiegare per trovare il cimitero di guerra austroungarico di cui scrive Rumiz. Sette minuti per arrivare a Prosecco, affianco una signora anziana che ha delle verdure in mano, le dico cosa sto cercando, lei dall’altra parte del finestrino mi guarda come se le stessi parlando di fisica quantistica e in un misto di italiano e triestino mi dice che non ha mai sentito parlare di quel cimitero, vada avanti un chilometro fino ad Aurisina, poi chieda in piazza. Obbedisco, non trovo nessuno a cui chiedere, il navigatore non mi è di aiuto. Decido che sarà per la prossima volta, torno verso l’autostrada e come sempre capita eccolo, il cartello giallo nascosto dietro un angolo che non avrei mai visto se le curve di questa provinciale non obbligassero ad andare a trenta all’ora. Dopo cinquanta metri la strada si divide e naturalmente non c’è più alcuna indicazione, come se si volesse evitare di far arrivare chicchessia a quel cimitero, renderne impossibile la frequentazione per annullarne il ricordo, e l’esistenza. Scelgo uno dei due vicoli, dopo un paio di centinaia di metri incontro un signore che sta facendo due passi tra gli alberi umidi di questo bosco e lui sì, lui sa, guardi è proprio lì avanti, stia solo attento alle buche della strada. Ha ragione, ormai ci sono, giusto altri tre minuti di fango, buche e rovi. Apro il cancello, guardo le croci di pietra, l’erba alta e non curata, le tante sterpaglie, i fiori finti bianchi o rosa che stanno ai piedi di alcune tombe. Leggo le targhe, piccoli rettangoli metallici sui quali stanno scritti i nomi dei caduti. Sono cognomi tedeschi o austriaci, molti ungheresi, ne trovo uno italiano. Mi chiedo come comunicassero tra loro questi uomini, se erano divisi in plotoni per provenienza e lingua, cosa li unisse, come si salvavano la vita a vicenda un caporale del Balaton e un soldato di Lienz – forse a gesti, a spintoni, di istinto come animali. Faccio un rapido conto delle croci, saranno sette o ottocento, forse un migliaio. Leggo un’altra targa, sotto il nome di un soldato austriaco c’è la scritta “Zwei unbekannte Soldaten” – due soldati sconosciuti, dei quali non si sa il nome, militi ignoti. Mi avvicino al piccolo altare in pietra sormontato da una croce dove in tre lingue – italiano, tedesco e quel che credo essere sloveno, certo non è ungherese – si dice che qui stanno i resti di 1934 soldati austroungarici. Ci sono lumini sui quali sono stati intrecciati nastri tricolori magiari, c’è una corona con un nastro bianco e rosso lasciata dalla Croce Nera d’Austria, l’associazione che mantiene in vita il ricordo dei soldati austriaci morti nelle due guerre visitando i cimiteri di guerra sparsi per l’Europa. Un migliaio di croci, il doppio di morti, il conto degli unbekannte è fin troppo facile. Esco dal cimitero e mentre chiudo il cancello incerto della sua entrata mi chiedo se la settimana scorsa, nel weekend che noi fingiamo di dedicare ai nostri morti qui sia venuto qualcuno a far visita, mi chiedo se per caso questi cinque minuti passati nel mezzo di un bosco della provincia di Trieste con l’asfalto dell’autostrada a meno di mezzo chilometro di distanza non siano stati un omaggio a qualcuno che non se lo meritava: gli austroungarici sono stati nel 15-18 quel che le SS sono state venticinque anni dopo? Non lo so, dovrei leggere, dovrei studiare, dovrei capire, perché non vorrei fare la fine di quella buona signora che ho fermato a Prosecco, quella che non poteva non sapere di questo posto e invece. E mentre penso questo penso pure la cosa contraria, se abbia senso, cent’anni dopo, rifiutare al caporale del Balaton e al soldato di Lienz quel minimo sindacale di pietà che sta nel fermarsi a guardare le loro tombe e appoggiarvici sopra la mano, e anche a questa domanda non so darmi risposta.