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31/12/2012
Ognuno ha le sue manie. Io ho quella di scrivere qui: tutto sommato per la società non è particolarmente pericolosa, al massimo aumenta di un cicinin il livello generale di noja e luogocomunismo, cose sulle quali si può chiudere un occhio. Ma come stanno le cose per davvero lo scrive Leonardo, nell’autobiografia del suo blog e nella biografia di questo (e di quei pochi altri ancora vivi):
Fino a qualche anno fa l’utente-tipo di un blog come questo era un abitudinario, che passava regolarmente 3-4 volte alla settimana, oppure si abbonava ai feed, e poi si leggeva tutto, o quasi. Questi utenti-tipo esistono ancora, però sono in diminuzione; il che dimostra la loro sanità mentale perché sul serio, non ha senso leggere tutto quello che scrivo io. Ogni tanto ne trovo ancora qualcuno che mi dice: ti ho letto per dieci anni, ma adesso non ce la faccio più. Come se il problema fosse che hanno smesso, a me sembra incredibile che siano durati per dieci anni. Io non ce la farei a leggere le opinioni di un tizio per dieci anni. Poi cosa vi aspettate, di andare ancora d’accordo con me? Vi è mai capitato di andare d’accordo con uno per dieci anni? Ma neanche con la mamma. Io per dire il tizio che scriveva i miei post nel 2003 non lo seguirei, anzi scapperei lontano. In effetti questo tipo di lettori-aficionados sta diminuendo, e chi scappa non viene rimpiazzato. C’è un gap generazionale, questo è un blog leggibile credo fino ai nati nell’ottantacinque, chi arriva dopo secondo me vede soltanto una lunga serie di incomprensibili segni neri tra un’immagine e un’altra.
Invece il nuovo lettore-tipo è un tizio che sta perlopiù su facebook, o su twitter, o su altri social più esotici, e tra un messaggio e una partita a farmville magari si ritrova in bacheca un link che sembra interessante: clicca e si ritrova qui.
E adesso su, hop hop hop, c’è un Angry Bird che vi aspetta.
30/12/2012
Ho appena letto che Massimo Mucchetti – vicedirettore del Corriere e, per quanto mi riguarda, uno dei cinque-sei giornalisti che in Italia valga ancora la pena leggere – si candiderà (verrà candidato? non lo so. Tutto sommato non mi interessa un granché) con il PD. Per quanto questo sia il mio partito, la mia sola opinione al riguardo è che avremo un grande giornalista in meno, e un (forse) discreto parlamentare in più. Da cittadino, non credo di guadagnarci.
29/12/2012
Dall’altra parte del telefono c’è uno di quei quindici che mi chiama col nomignolo di quando andavamo alle medie. Volevo dirti che è morto il Giulio, mi fa, visto che in quel bar ci hai passato anni ho pensato di avvisarti. Lo ringrazio, lo saluto, torno sul divano. Il bar di cui parla il mio amico non esiste più, ha chiuso una vita e alcuni morti fa. Per me rimangono le immagini che ogni volta che entro in quei locali mi tornano davanti agli occhi, a sinistra il tavolo delle boccette, a destra i due dei cinque birilli, più vicino quello dei principianti e più in fondo quello dei bravi e dei vecchi, e qualche storia raccolta in un pdf senza pretese, che chi vuole – se non l’ha fatto otto anni fa – trova . Il Giulio era il padre del Marco, il primo che si mise dietro il bancone per poi lasciare al figlio il compito di portare avanti la baracca. Per i bastardi casi della vita, il Marco è morto prima di suo padre, e sì, a rileggere queste poche righe ci sarebbe solo da far scongiuri, da pensare che quel posto magari stava sotto una cattiva stella, chissà. Ma tant’è, e oggi qui li si ricorda, il Giulio e il Marco, mentre ci portano una birra al tavolo dei principianti.
28/12/2012
Ieri sera sono entrato in quell’ospedale. Quello dal quale tu non sei riuscito a uscire. Non ci mettevo piede da tre anni, da quell’inverno passato in una sala d’aspetto, sperando che un medico, uno qualsiasi, venisse a dirci che le cose andavano meglio. Ne hanno rifatto dei pezzi interi, adesso sembra un centro commerciale, mentre sei in coda agli sportelli puoi andare in libreria, puoi comprarti un telefono o mezzo chilo di torrone, o uno shampoo da erboristeria. C’è anche uno di quei negozi che vende intimo femminile, attraversi i reparti e vedi donne che arrancano nelle loro vestaglie di flanella custodite in un cassetto perché non si sa mai, ma qui ti rifai la vista con i reggiseni e le mutandine da pornostar. Quando sono uscito faceva freddo, non tanto, non come tre anni fa, ma abbastanza da affondare le mani nelle tasche del giubbotto e vedere la condensa uscire dalla bocca, ho guardato verso sinistra, ho trovato con gli occhi quel lungo corridoio porticato che portava al tuo reparto – non mi sembra che lì ci abbiano messo mano: quello è l’ospedale che ricordavo, quello che sembra appena uscito da un bombardamento, con i muri scrostati e le luci fioche e sporche – e ho sentito la tua mancanza, eri una delle pochissime persone al mondo che mi faceva ridere anche quando raccontava dei suoi guai, non è la mancanza di un pezzo di gioventù, è proprio la mancanza di una parte di me, di noi, di quel che eravamo da uomini con i capelli più radi e bianchi. Chissà dove sei, chissà come stai.
26/12/2012
Qualche mese fa, una dozzina o poco più, mi sono detto che forse era l’ora di provare a colmare qualche buco delle mie letture, e farle sembrare un po’ meno l’incerto risultato delle poco consapevoli scelte di un pur volenteroso studente della Scuola Radio Elettra. Allora mi sono messo di buzzo buono: Tolstoj, Dostoevskij, Fitzgerald, Salinger, Melville, Dickens. E’ passato un anno, e quel che so è che ho incontrato tre o quattro personaggi enormi, drammatici, da chiudersi in casa e non voler fare altro se non sapere come andava a finire: Andre Agassi raccontato da se stesso in Open, David Foster Wallace raccontato da David Lipsky in Come diventare se stessi (anche se il titolo originale è millemila volte meglio – Although of Course You End Up Becoming Yourself) e da D.T. Max in Every Love Story Is A Ghost Story, Bill Walton raccontato da Bill Simmons in The Great Book of Basketball e Tino Faussone raccontato da Primo Levi in La chiave a stella. Mi dispiace Anna, niente lacrime per il tuo suicidio: ma non disperare, una De Filippi per te si trova sempre.
25/12/2012
Non erano ancora le dieci di quel mattino di agosto quando arrivai insieme a mia cugina Anna all’altezza della grande vasca di pietra dalla quale mezzo paese attingeva l’acqua che non arrivava nelle case. Portavamo una grande cesta di vimini, lei tenendo un manico e io tenendo l’altro. La cesta era piena di fichi d’india, già maturi per il gran caldo di quell’estate. Avevamo entrambi dodici anni, camminavamo a piedi nudi e il nostro mondo andava dalle colline dove correvano i cinghiali al ponte pisano sotto il quale passava il fiume nel quale chi aveva la fortuna di poter pascolare le greggi nelle vicinanze riusciva a farsi il bagno che soltanto i signori che abitavano in città potevano permettersi. Quando il soldato tedesco ci venne incontro mormorai ad Anna “non preoccuparti, non sembra ubriaco” ma anche senza guardarla capii che lei non mi stava ascoltando. Il soldato era vestito di tutto punto, mimetica, anfibi, elmetto e mitra. Forse era di guardia, non so. So invece che aveva occhi cattivi. Abbassò la canna del mitra puntandola vagamente verso le nostre teste e noi ci fermammo, con la cesta dei fichi d’india che improvvisamente diventò pesante come le pietre del nuraghe vicino al santuario della Madonna della Neve; ci disse qualcosa che noi naturalmente non capimmo, ce la ripetè urlando e noi rispondemmo che non capivamo, che non avevamo fatto niente, che stavamo tornando dalla campagna e le nostre madri ci aspettavano. Il soldato sputò per terra, poi si avvicinò di qualche altro passo, guardò nella cesta. Nel momento preciso in cui allungò la mano riuscii a guardarlo bene, come se ogni secondo durasse un’ora, poteva avere vent’anni, aveva la testa biondo cenere, gli occhi di ghiaccio spento e le guance incavate di uno che soffriva la fame ancora più di noi. Come Anna ero paralizzato dal terrore, ricordo ancora adesso il mitra tenuto appoggiato su un fianco e retto dalla mano destra che puntava verso di noi. Non riuscii a dire nulla, a fermarlo in tempo. Fu un lampo, prese uno dei fichi d’india dalla cesta e se lo portò alla bocca, così in fretta da non aver tempo di sentire il dolore delle spine che gli entravano nella mano: e un secondo dopo cento altre spine gli si infilzarono nelle labbra, tra i denti, nelle gengive. Anna mollò la presa, la cesta rimase appesa alla mia mano mentre i fichi d’india rotolavano per terra e il soldato tedesco urlava impazzito dal dolore. Nella vita non ho mai più avuto tanta paura quanto quella mattina di agosto, quando quel ragazzo che veniva da una terra nella quale i fichi d’india nessuno sapeva cosa fossero portò la canna del mitra all’altezza della mia bocca, e poi all’altezza della bocca di Anna e io vidi solo bianco per quei pochi, eterni secondi durante i quali un altro soldato corse verso di noi urlando parole che non capimmo ma che ci salvarono la vita. Raus, urlò questo angelo sbucato da una tenda verde, raus, via di qui, mollò un calcio alla cesta e un tremendo ceffone al ragazzo che avrebbe voluto spararci e noi corremmo via, senza guardarci indietro, senza fiato, senza la nostra cesta di fichi d’india.
Non so perché mi sia tornata in mente questa scena di settant’anni fa proprio oggi, nella sera di un Natale piovoso a mille chilometri da quella vasca di pietra. Sono abbastanza anziano da sapere che non puoi sempre controllare quello che ti passa per la testa; anzi. Guardo fuori dalla finestra, ci sono le luci intermittenti degli addobbi. Chissà perché penso a che fine ha fatto quel ragazzo che avrebbe voluto uccidere me e mia cugina, e nello stesso tempo, con ancora meno motivi, penso a qualcosa che mi manca senza sapere bene cosa possa essere, un augurio al quale tenevo, una ragazza dai capelli neri, una motocicletta col serbatoio pieno, una cesta di fichi d’india.
24/12/2012
Ieri sera uno dei mondi che bazzico [per intenderci: quello nel quale il PD prende l’86%, Bersani ha statura politica inferiore solo a quella di Mao ma è giusto questione di tempo e in ogni casa ci sono altari votivi e ceri sempre accesi per la quotidiana adorazione di Massimo D’Alema (considerate questa descrizione un autoscatto)] si è trasformato nella versione 2.0 della Tom Ponzi SpA – una cosa di agendemonti, ichini, pidieffe, stavi con me ma già andavi a letto con quell’altro: fidatevi, è tutto qui; ma se ne volete un riassunto professionale lo trovate qui. Questa mattina ho riletto il tutto, e per l’ennesima volta mi sono sentito nelle orecchie la voce di un’altra che la sa lunga per davvero ripetermi “se solo sapeste quanto alla gente non gliene freghi nulla di tutto questo, avreste l’idea dell’infinito”.
23/12/2012
Io sono un pezzo dell’ingranaggio. Una ruota dentata, mossa da una ruota più grossa e che muove ruote più piccole. Ci sono delle aziende grandi che danno lavoro ad aziende medie come quella che mi paga lo stipendio alla fine del mese, e queste aziende medie danno lavoro ad aziende più piccole, e a persone. Ognuno tira la corda per quanto gli è possibile, ognuno fa la faccia cattiva, ognuno prova a raccogliere il maggior numero di briciole tra le poche che questa crisi fa cadere dalla tovaglia. Così, per duecentoventi giorni lavorativi ogni anno, e per gli altri cento dei weekend che nominalmente fanno da cuscinetto di riposo, e così via: perché ci sono periodi nei quali quel pensiero non ti lascia mai. Quale pensiero? Quello di riuscire a tenere in piedi la baracca: far quadrare i conti, risparmiare un due per cento qui, spostare un termine di pagamento di là, controllare i margini, prestare un’attenzione maniacale e prosciugante a ogni singolo microscopico dettaglio.
Nel penultimo pomeriggio lavorativo dell’anno (penultimo solo sulla carta: ma questo è un altro discorso) inizi a mandare le comunicazioni che ti toccano: a tarda sera, tra le risposte che arrivano ce n’è una, arriva da una donna che hai assunto perché “fa parte del package”; “quando ho letto che mi avresti rinnovato il contratto mi sono sentita sopraffatta. Grazie, questo è il regalo di Natale che potevo solo sperare di ricevere“. Vorresti risponderle, dirle che quelle poche parole non solo ti hanno fatto toccare con mano quanto il lavoro sia importante (in fondo, dovresti saperlo perché lo vivi sulla tua pelle ogni giorno: eppure), che forse tutti gli sforzi di quest’anno tremendo sono ricompensati dalle sue due righe di ringraziamento. Poi riguardi le tabelle dei costi e dei ricavi e dei margini, ripensi ai contratti che hai disdetto meno di otto ore prima. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi. Già.
20/12/2012
Il locale inizia ad affollarsi, la gente riempie gli attaccapanni e poi le sedie, appoggiando cappotti e piumini. A guardarlo da fuori, questo gruppo di persone sembra un esercito in ritirata, le stesse facce anodine sulle quali il pensiero dei giorni che ancora mancano a Natale fa scomparire il sollievo del ritorno a casa, del divano sul quale stendersi, del telefono spento. Si formano i capannelli, lo sai che X è incinta, resti a casa per le feste, dopo dieci minuti almeno la metà dei presenti sta nuovamente parlando di lavoro, forse perché questa è l’unica cosa che hanno in comune anche se tanto spesso non si può dire che li unisce, anzi. Qualcuno controlla la posta. Un gruppo si sposta all’aperto a fumare. Ci sono degli abbracci, i contratti in scadenza che non vengono rinnovati, dead men walking. A che ora è la partita, sabato? Dodici e mezza, non riesco ad andare allo stadio. Dopo un paio d’ore il locale si svuota, facendo spazio ai clienti soliti. Sei in ufficio domani, no, forse venerdì, beh gli auguri facciamoceli adesso per sicurezza, ciao, buon Natale, buon Natale anche a te.
15/12/2012
Non ho mai avuto paura, negli Stati Uniti. All’una di notte a Hell’s Kitchen, alle tre del mattino tra gli ubriachi di Bourbon Street a New Orleans, su un autobus a Orlando dove ero l’unico bianco e tutti mi guardavano con un’espressione che suonava come “e tu che cazzo ci fai qui, ce lo vuoi spiegare?”. Non che sia un cuor di leone, sia chiaro. E nemmeno sono andato a fare l’eroe, i tre esempi che ho fatto – i primi che mi sono venuti in mente – non sono certo “ero a Kandahar su un blindato che passava in una zona minata”. Voglio solo dire quel che ho detto, che pur essendomi trovato in posti e situazioni non esattamente da turista non ho mai avvertito una sensazione di pericolo: è un campione statistico irrilevante il mio, fatto da una decina di anni di viaggi di lavoro, e non lo voglio vendere per altro che questo. C’è stato solo un momento nel quale ho sentito un brivido, non saprei dire bene di cosa – camminavo lungo Auburn Avenue ad Atlanta, andavo verso la casa natale di Martin Luther King, avevo appena passato la traversa dove all’epoca stava la palazzina dell’YMCA, ho voltato la faccia verso destra e ho visto una grande insegna che diceva Loan Office, ho attraversato la strada e all’angolo di Edgewood mi sono trovato di fronte a una vetrina che ricordo lunghissima, quindici metri almeno, ed era piena di armi. Piena. Armi di ogni tipo, io non sono un esperto ma c’erano pistole, fucili, mitra. Tutti belli lustri, con il loro cartellino del prezzo, questa è un’offerta, questo viene via con niente. Erano belle – non c’è niente da fare, le armi sono belle in sè, come oggetti; ma io non avevo mai visto tanta potenza di fuoco tutta insieme, nemmeno nell’armeria del Secondo Gruppo Squadroni Savoia Cavalleria, e ricordo di essere rimasto lì per qualche minuto, sul marciapiede, a guardare come se quella fosse la vetrina di Princi, senza capirci nulla. La casa di MLK, e la chiesa dove predicava, e il World Peace Rose Garden stavano tutti a cinque minuti di distanza.
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