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28/02/2013
Faccio il conto degli italiani con i quali ho avuto a che fare negli ultimi giorni. Una quindicina, grosso modo. Colleghi, clienti, gente con la quale parli davanti alla macchinetta del caffè o nella hall di un albergo – da quanto sei qui, adesso parto per Melbourne, proviamo a sentire il nostro headquarter di Singapore. Faccio il conto di quanti hanno parlato delle elezioni: quattro, dei quali tre per dire che erano un buon motivo, del quale non avevano peraltro nessun bisogno, per confermarsi nell’idea che percaritadiddio, di tornare non se ne parla proprio. Il quarto aveva nella voce solo sconforto. Ma gli altri, ecco, sono gli altri che mi incuriosiscono. Quelli con i quali passo la maggior parte del tempo, gente giovane venuta in Cina per studiare e che poi ha trovato un’occasione di lavoro, e qui ha deciso di restare. Hanno nostalgie proustiane, sentono la mancanza di una spiaggia, della pennichella del sabato pomeriggio, di un angolo in riva al Po, persino di un pranzo in famiglia: non gli manca il loro Paese, quello con la maiuscola, lo sentono come una cosa distante da loro, anzi non lo sentono nemmeno. Elezioni, hai detto? Ah sì, ho sentito. Sai, mi sa che prendo un paio di giorni, li attacco al weekend, in quattro ore sei in Thailandia, ho bisogno di un po’ di riposo.
26/02/2013
(…) Avevo letto la storia qualche settimana fa in un libro di Yu Hua, “La Cina in dieci parole” (lo so, il titolo è quello che è, fa un po’ “Come essere felici in una settimana”, ma ti assicuro che il contenuto era migliore). Pare che il Grande Timoniere, in una delle sue alzate d’ingegno che tanto ce lo fanno rimpiangere, un giorno abbia deciso che tutte le città cinesi al di sotto di una certa latitudine erano, proprio per quella ragione, di per sé “calde”: e quindi non c’era bisogno di dotare le abitazioni degli opportuni impianti di riscaldamento.
Il resto lo trovate qui, su Leftwing, che è qualcosa che dovreste leggere comunque, e che molto gentilmente ospita qualche letterina da Shanxi Lu North. Le cose migliori, di solito, sono le risposte del Direttore.
Da qui, vedo l’Italia da lontano, attraverso la home di Repubblica e poi vedo le facce dei miei colleghi: molti giovani, che sono venuti qui a studiare e qui si sono fermati per lavorare. Poi vado in bagno, guardo nello specchio la mia faccia, la faccia di quello che deve tornare in un posto che non capisce più, e nel quale si trova sempre più a disagio.
24/02/2013
E’ stata una domenica di vento e sole, una di quelle giornate che sgombrano il cielo dall’umidità e dall’inquinamento. Sembra primavera, per un paio d’ore lo è. Lascio il Bund e i milioni di persone che lo affollano, passo il ponte sul Wusong, l’affluente del più grande Huangpu ed entro in questo reticolo di vie, Minhang, Wuchang, case povere schiacciate tra i grattacieli da una parte e Zhapu Lu dall’altra, la via che diventerà più avanti la zona pedonale di Yuanmingyuang Lu con i suoi ristoranti di lusso, i suoi alberghi a cinque stelle, le sue modelle che sorridono in favore di camera per una pubblicità di borse. Tutti i panni di Shanghai sono stesi all’aria oggi: bisogna approfittare del clima, è uno di quei giorni che si asciugano in mezz’ora. Basta alzare di poco gli occhi e ci sono millemila bastoni ai quali sono appesi maglie e mutande e giubbotti e camicie e pantaloni di ogni colore e dimensione, tutte cose gualcite e di bassa qualità – d’altra parte i ricchi hanno altri sistemi e possibilità per curare il proprio guardaroba. Sulla ringhiera che delimita lo spelacchiato prato che fa da spartitraffico tra le sei corsie di Wusong Lu stanno appoggiati lenzuola e piumini, vedo una donna uscire da una porta ed entrare nel parchetto che le sta di fronte a casa, dove un bambino tira e molla le foglie spinose di una specie di palma sotto gli occhi di un anziano, forse il nonno, forse uno zio, e appendere un lenzuolo ad un cavo tirato tra due alberi. C’è un’aria di paese anche se basta girare la testa per vedere i grattacieli di Pudong, quelli che non hanno nulla da invidiare alla parte sud-est di Manhattan, potrei essere in un paesino dei Monti dell’Atlante – anche lì, altro che asciugatrici e termosifoni: il sole, il vento, e la speranza che durino.
Il fatto è che anche a novemila chilometri di distanza, la domenica non è altro che l’attesa del lunedì (e senza nemmeno una cabina elettorale da visitar).
22/02/2013
Rientro a casa passando per una traversa di Shanxi Lu. Sulla destra c’è un grande cancello, un nome cinese seguito dalla parola Kindergarten. Un asilo privato, mi pare di capire. I venti metri di muro successivi sono coperti da grandi fotografie che illustrano la vita dei bambini nell’asilo: la festa di Natale con un Santa Claus in abito da lavoro, in cerchio mentre cantano, una femminuccia che ride mentre si tiene in equilibrio sulle mattonelle di un marciapiede. Poi c’è quest’altro poster, che sta lì insieme agli altri a fare pubblicità all’asilo, a dare buoni motivi per portarci e lasciarci i figli – che qui sono pochi e preziosissimi: si vede il cortile dell’asilo, sull’asfalto il suo grande logo (una specie di Doraemon, se la memoria non mi inganna); poi quattro soldati, in divisa, senz’armi, il primo a sinistra con una specie di lancia piumata. Sono molto giovani, sembrano messi in ordine discendente di altezza, marciano impettiti, con lo sguardo severo, il soldato di sinistra col viso rivolto verso i commilitoni – evidentemente è il caposquadra. L’obiettivo li coglie in un momento di imperfezione, due dei quattro piedi sinistri sono attaccati al suolo, il terzo e il quarto non ancora, questione di frazione di secondi, a occhio nudo non se ne sarà accorto nessuno. Di sicuro non se ne sono accorti le decine di bambini che si vedono alle loro spalle: assistono alla marcia dei soldati, sorridono tutti, sembrano felici come solo dei bambini di cinque anni davanti a un gioco; indossano tutti un’uniforme verde, che sembra la versione 0-12 della divisa dei soldati, hanno un fazzoletto rosso al braccio sinistro. Non so cosa stessero facendo, i bambini e i quattro soldati: non posso leggere e capire le scritte che corredano la fotografia. Posso provare a immaginare – una lezione come quella che in Italia i vigili urbani fanno su come si attraversa la strada senza correre né creare pericolo, o una celebrazione dell’eroismo dell’esercito popolare, cioè del popolo, di tutti. Penso ai genitori che scelgono quell’asilo, chissà che ne pensano di quei soldati, chissà se gli interessa qualcosa o se sono tutte fisse mie.
21/02/2013
Io a voi occidentali davvero non vi capisco, dice la ragazza. A noi piace uscire a mangiare – ed è vero: non c’è un locale che venda cibo, sia piccolo o grande, infimo o di lusso che sia vuoto; diciamo che i ristoratori non muoiono di fame -, ci piace farlo da soli, con gli amici o con la famiglia. Ma mangiare deve costare poco, come fate a essere così pazzi da spendere trecento renminbi per un paio di piatti e un bicchiere di vino. L’amica le spiega che esci a mangiare non necessariamente per sfamarti, ma per andare in un bel locale, per mangiare qualcosa di particolare o di particolarmente buono che a casa non potresti avere o non saresti capace di cucinare, per tutta una serie di motivi che non hanno a che fare direttamente con il cibo o la fame. La ragazza scuote la testa, lo so anch’io che non vai al ristorante per sopravvivenza, ma questo non vuol dire che vai a farti rapinare; e poi guarda come diventate, siete come quelli di qui, come quelli di Shanghai, tutti grassi, mica come noi del nord. L’amica si guarda, punta nel vivo, come tutte le italiane vorrebbe perdere qualche chilo anche senza considerarsi grassa, poi si guarda in giro, guarda le migliaia di persone che affollano questo tratto tra Xiqang e Jiujiang, ne cerca uno che secondo i suoi parametri sarebbe definibile grasso e non le riesce di trovarlo, vorrebbe scambiarsi con il novanta per cento delle donne che vede, mica si parla di belle o brutte, di alte o basse, si parla di peso, di circonferenza, di indice di massa corporea, e tutto quello che riesce a rispondere è have you ever been to Louisiana?
19/02/2013
Non so chi sono. So che le vedo la mattina alle otto e la sera, dodici ore dopo. Sono quasi tutte donne, a gruppi che vanno dalle dieci alle trenta componenti. Stanno nei due, trecento metri che separano l’inizio della zona pedonale di Nanjing Lu verso ovest dall’incrocio con Zhejiang Lu, in mezzo alle vetrine splendenti, ai trenini per turisti, ai procacciatori di clienti per le migliaia di prostitute che affollano la città, ai venditori di orologi falsi, agli studenti in divisa. Ballano. Qualcuno porta un lettore di cd, lo collega a un amplificatore e via, iniziano. Ballano per delle mezz’ore intere, a volte si danno il cambio, più spesso restano insieme per tutto il tempo. Sono tutte di mezz’età, stanno in fila una dietro all’altra e una a fianco dell’altra con un senso geometrico che fa a pugni con l’apparente immane costante casino che pare governare ogni angolo di Shanghai, e quando si muovono sembra di vedere un corpo di ballo di un varietà per la sincronia, la precisione e l’impegno, i passi tutti uguali, a tempo, apparentemente senza aver nessuno che guidi il movimento collettivo. Spesso è musica occidentale quella che si sente uscire dalle casse, a volte latinoamericana, capitano valzer e tanghi; di solito c’è anche il pubblico, passanti che si fermano e per pochi secondi o qualche minuto si godono lo spettacolo: che è tale per gli spettatori, ma non sembra esserlo per le ballerine che hanno tutte uno sguardo tanto assorto da sembrare perso. Talvolta si vedono dei gruppi misti che ballano in coppia, ma son più rari e, non saprei dire perché, a me piacciono meno. Adesso stanno qui, sono due gruppi uno a cinque o sei metri dall’altro, dio solo sa come le musiche riescono a non sovrapporsi, saranno in tutto una trentina e ballano, all’aperto, nell’aria gelida figlia della nevicata di questa notte, e di tutti noi che affolliamo la zona pedonale – chi per andare a prendere la metro in People’s Square, chi per fare shopping o bere un caffè o cercare sesso: e siamo in tanti, siamo migliaia – sembrano le più serene, abitanti di una dimensione che noi non conosciamo e non capiamo.
Abito all’angolo di Shanxi Bei Lu e Nanjing Lu West. Nei primi tre minuti di cammino verso est, in direzione dell’ufficio, vedo le vetrine di Tiffany, Bulgari, Dior, YSL, Zara, Prada, Hublot, Vacqueron Constantin, Rolex, Corneliani, IWC, Gucci – e ne sto certo dimenticando qualcuna. Vedo anche due uomini, sul marciapiede di destra, stanno dietro a due carretti a tre ruote, come se fossero delle biciclette col rimorchio. Stanno lì, in piedi, col piumino ben allacciato, uno dei due ha pure un paraorecchie, e nel cassone di legno posizionato dietro al sedile sta la loro mercanzia, maglioni, sciarpe e guanti venduti per pochi yuan. Stanno lì, tranquilli, a tenere la loro posizione nel mezzo chilometro più ricco della Cina: non ti invitano a comprare, questo lo fanno i venditori sguaiati del Fake Market o di Dongtai Lu, stanno ad aspettare, e basta. Chissà se qualcuno si ferma, chissà se fanno giornata.
17/02/2013
Arrivo a Shanghai nel primo giorno lavorativo dopo le feste del capodanno cinese. Qui la tradizione vuole che per iniziare il nuovo anno uno torni al suo paese natale, così le città si svuotano e milioni di persone ritornano, chissà quanto di buon grado, nelle campagne dove sono cresciute. Del primo giorno dell’anno c’è l’atmosfera, quella specie di rilassata spossatezza che prende dopo le grandi feste: non ho mai visto così poche macchine e persone in giro per le strade, non ho mai sentito tanto silenzio in questa città immensamente grande, popolata e rumorosa. Sembra di girare per Milano alle otto del mattino del primo gennaio, o per Bourbon Street alle nove di un qualsiasi mattino feriale quando le suole rimangono attaccate all’asfalto impastato di birra e vomito. E’ bellissima Shanghai in questo momento, una sera di vento gelido, di stelle luminose attaccate agli alberi che ballano come foglie in autunno, di fiori viola messi per lunghe intere pareti a dare colore, di aria limpida (dice che quest’anno i fuochi beneaugurali sono stati ridotti della metà per non rendere le città ancor più inquinate di quanto già siano di solito, chissà se dimezzare la festa serve a qualcosa, se porta bene o no): pare un villaggio che va a finire il suo sabato, non importa se le regole del business lo hanno reso lavorativo, con una specie di lungo sospiro a darsi forza per l’anno che sta arrivando, e che tra un anno finirà.
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