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30/08/2013
Il ragazzo sta seduto nella sera che arriva. Appoggia le mani sul marmo bianchissimo e rugoso e guarda le statue, e i pini marittimi alle loro spalle e il colle che sale scuro. La ragazza arriva, e gli si siede a fianco. Non sei di qui, gli dice. Lui pare svegliarsi da un sonno, o da un sogno, o da un pensiero lontano e la guarda con un’espressione stanca e stranita. Non sei di qui, ripete lei. No, non sono di qui, Lo sapevo, E come facevi a saperlo chiede lui tornando a fissare i muscoli di marmo che puntano verso il cielo. Il modo in cui guardi questo posto, E che modo è, Un modo che hanno solo i forestieri, i turisti, quelli che girano per lavoro. Credo di essere tutte e tre queste cose, dice lui. Lo immaginavo, risponde lei. Per un po’ rimangono in silenzio. Cosa vedi, chiede lei. Qualcosa che non vedi tu, mi pare di capire, Penso di sì, è per quello che te lo chiedo, Vedo della bellezza, immagina una pallina, immagina di lanciarla verso il cielo e poi di seguirla con lo sguardo fino al punto più alto quando poi inizia a scendere, e in quel momento vedi il cielo scuro e la sfera gialla e il verde degli alberi e il bianco del marmo tutto insieme, tutto fermo come in una fotografia, Non ci ho mai pensato, Puoi provarci. Restano ancora in silenzio. Dopo un po’ lui appoggia le mani sulle ginocchia, fa leva e si alza lentamente. Vai via, chiede lei, sì, vado, E dove, Non lo so, non conosco questi posti, andrò un po’ a caso, Posso venire con te, Se vuoi sì, ma non capisco perché, Non lo so nemmeno io, magari mi fai guardare insieme a te.
28/08/2013
Ho un nuovo ufficio. E’ una sala grande, con una scrivania altrettanto grande – dovrebbe ospitare almeno due persone, di fatto quando sono qui sono praticamente sempre da solo, che è la stessa cosa che succede al mio collega, lui arriva e io non ci sono e si gode lo spazio.
Comunque.
Ha due grandi finestre, su due lati distinti, di quelle da sito produttivo di archeologia industriale. Così la luce cambia, durante il giorno, e io cambio di posto – ho due poltrone, la mattina mi siedo su una, il pomeriggio su quella che sta di fronte: mi evito i riflessi sgraditi nello schermo del portatile, e ho una visuale diversa. Ci sono dei momenti, durante il giorno, che ho tempo di guardare fuori: magari sono al cellulare (e allora mi alzo, e cammino – sono di quelli che non riescono a stare fermi mentre parlano al telefono) oppure cerco di inventarmi un giro di parole per non insultare qualcuno via mail, e così. Ci sono giorni come oggi che, non si sa come, Milano ha il cielo azzurro come Tijuana, o Orvieto, e le palazzine basse di questo complesso che una volta era una distilleria risaltano come se fossero disegnate da un bambino che ha scoperto i pennarelli Carioca, e allora mi instupidisco un po’, resto lì a guardare il nulla che è fatto da alberi, e macchine che passano con il limite dei 15 all’ora, e modelle che vengono dai casting, e colleghi rimasti nella palazzina di fronte e il cartellone pubblicitario che dice strizza il mutuo e le tegole rosse e le ombre sono nette e scurissime. Ci sono giorni, invece, che piove e le finestre diventano dei gessati di gocce e di là dal vetro è tutto un po’ mosso e sembra talmente triste da essere bello.
E’ che forse mi piace stare a guardare fuori dalle finestre, tutto qui.
27/08/2013
“Mi son ricordato di una cosa che ho imparato dai vecchi: falli parlare di quello che veramente conoscono e amano, e capirai cosa pensano del mondo. […] Io di cose che conosco davvero, e amo senza smettere mai, ne ho due o tre. Una è i libri. Mi è venuta un giorno questa idea: che se solo mi fossi messo lì a parlare di loro, prendendone uno per volta, solo quelli belli, senza smettere per un po’ – be’, ne sarebbe venuta fuori innanzitutto una certa idea di mondo. C’erano buone possibilità che fosse la mia.”
L’altro giorno mi sono messo a leggere questo libro di Baricco – è una cosa agile, un pomeriggio e due sere e via, fatta. Ora, io sono di parte nel senso che di Baricco mi piace tutto, ma proprio tutto quello che scrive, recita, declama, tutto purché non siano i suoi romanzi (il che, lo ammetto, non è forse questo gran complimento per uno che scrive libri: epperò, per dire, è la stessa cosa che mi succede con Foster Wallace, nel senso che i suoi romanzi o racconti sono molto belli ma i saggi e gli articoli e quelle cose lì sono bellissimi, quindi facciamo che non stiamo a sottilizzare). Ma in realtà non è questa la cosa che mi interessava*, mi interessava l’idea di fondo, quella che si possa definire l’idea del mondo che uno ha, pure magari inconsapevolmente, guardando i libri che gli piacciono tra quelli che legge. Che è un’idea che ha il suo senso, unisci i puntini, vai da Roth a Irving, colleghi questo a Marquez e Marquez a Pennacchi e così via, poi guardi il risultato finale e magari vedi solo un groviglio, un gomitolo preso a unghiate da un gatto annoiato, ma magari ci vedi qualcosa che ha un significato (poi fai la stessa cosa con la musica, per dire: scarti subito i Beatles, prendi gli Stones, vai a Springsteen, allunga il filo e arrivi a Mellencamp, cose così). Ma c’era qualcosa che non mi convinceva fino in fondo, e ancora adesso non saprei bene dire cos’era, se non che ho la sensazione banale che non siano i libri quelli che definiscono la tua idea di mondo bensì le sottolineature, le evidenziazioni che ne fai, le due frasi che ti rimangono, le cento parole su trecento pagine, sì, va bene Pastorale Americana ma alla fine quel pezzo a pagina 254, basterebbe solo quello, anzi magari c’è solo quello e tutto il resto lo puoi pure buttare via (si fa per dire, non scherziamo, adesso ti pare che si butta via qualcosa di Roth), magari il libro è pure brutto ma quelle quattro righe dicono tutto, e tutto di te, e niente, poi mi sono reso conto che Baricco questa cosa l’aveva già fatta (non che ci volesse una gran scienza, lo ammetto), due o tre delle Palladium Lectures sono un lungo elenco delle sue sottolineature, e lo vedi, lo vedi che è vero, che allora funziona così.
*Poi cinque o sei libri di quelli consigliati li ho recuperati, quell’uomo è un venditore che lévati.
25/08/2013
Ho preparato la cartella, sistemato le penne nell’astuccio, annotato sul diario tutte le buone intenzioni – pronte per essere disattese come ogni anno – ho ripassato a voce alta tutti i proponimenti. Credo di essere pronta. Domani si ricomincia. Ho detto credo.
[Sapete quella cosa delle immagini che valgono più delle parole – ecco, se andate a vedere l’originale dalla Mae* c’è anche la foto giusta (come sempre, più o meno). Poi c’è che a me il primo giorno di scuola piaceva, perché le cose mi venivano facili, mica come adesso – quando si dice invecchiare male]
20/08/2013
Intorno è tutto terra rossa e ulivi. Il mare è a pochi chilometri, e lontanissimo. Nel cimitero c’è un silenzio quasi perfetto, come se alle tre del pomeriggio la vita fatta del volo di mosche e lievi spostamenti di foglie avesse deciso di stare fuori da quelle mura. A un albero sono appesi piccoli rosari, e tre penne di plastica. La tela di una bandiera brasiliana pende stanca sotto il sole. Nell’angolo più lontano si avverte il primo movimento, una donna di mezza età vestita di nero pulisce la tomba di un nonno e di un nipote. Arriva una coppia, scambia un saluto con la donna, si sentono le parole buon viaggio che dicono di una partenza, di un ritorno a una casa che da tanti anni non è più in questo piccolo paese, di un saluto ai morti prima di accendere il motore e dirigersi verso nord.
17/08/2013
C’è un momento, quello che ormai la serata è finita, è tardi e sei sul marciapiedi vicino alla macchina. E’ il momento dei saluti, ciao, stai bene, mi ha fatto piacere vederti, appoggi la guancia sull’altra oppure stringi la mano e nell’istante preciso in cui lo fai il cervello se ne va da un’altra parte a chiedersi quando è stato che abbiamo iniziato a salutarci sostituendo la stretta di cento generazionni con quella mossa da braccio di ferro che fa così tanto tribù fuori tempo massimo. C’è quel momento in cui dici dai, vediamoci, mangiamo qualcosa insieme, sì, certo, molto volentieri, c’è quel momento che sei a mille chilometri da casa e dici la verità, dici proprio quel che pensi, dai, vediamoci, mangiamo qualcosa insieme, sì, certo, molto volentieri, c’è quel momento che non pensi a tra un mese o due ma solo a quel secondo preciso dei saluti, da quanto tempo non ci vedevamo, quattro mesi o venticinque anni e dici la verità esatta, dai, vediamoci, mangiamo qualcosa insieme, sì, certo, molto volentieri, c’è quel momento brevissimo e infinito, e il momento dopo accendi la macchina, e guardi nello specchietto se puoi uscire dal parcheggio.
15/08/2013
Le mappe servono a sognarlo, il viaggio. O a ricordarlo. O a inseguirlo: il proprio, o quello di un altro. Ogni punto una briciola di pane, come quelle di Pollicino. Qui un muro, lì una finestra, là una pianta. Una porta, una statua, una vetrina. Una fotografia. Poi arrivano gli uccelli, a beccarle, a portarle via. Chissà dov’è ora quel viaggio, chissà com’è.
12/08/2013
Troppa luce per vedere il buio, ma in fondo ecco, in fondo, come dice la canzone, dal profondo del nero del mare, adesso alzo la testa, basta poco, San Lorenzo dammi una scia, come quella dell’aereo che ti porta via, guarda che buio adesso, e guarda come brilla quella stella.
08/08/2013
Le estati passano, ma gli ultimi giorni di lavoro in fondo sono sempre gli stessi, arriva l’attimo in cui ti fermi, in cui tutti si fermano e allora ti pare di sentire un lungo respiro che passa fra le scrivanie. Poi magari in quel momento sei un po’ più stanco dell’anno precedente, oppure sai che non potrai fermarti per davvero, potrai soltanto rallentare, e vorresti raccogliere i pensieri ma non ne hai, e allora possono andare bene anche quelli di qualche anno prima. Gli ultimi giorni di lavoro, in fondo, sono sempre gli stessi.
La mano lascia il mouse mentre il pomeriggio sta finendo e lo schermo si ferma su un ultimo messaggio da completare e spedire. Per un momento nell’ufficio si fa silenzio, un po’ più silenzio del solito, come se tutti prendessero fiato. Qualcuno sente crescersi dentro quella specie di eccitazione delle vacanze in arrivo, del check-in in aeroporto, qualcuno prepara l’ultimo caffè della giornata, qualcuno prende il telefono, lo passa da una mano all’altra per un paio di volte e poi si decide a chiamare, come stai, bene e tu, bene grazie, allora sei in ferie, sì da mezz’ora, bene, e tu, ancora una settimana, dai manca poco, sì, poi c’è una lunga pausa, quattro o cinque secondi, piena degli undici mesi e mezzo dell’eterno anno scolastico in giacca e cravatta e camicetta e tacco otto, piena di talmente tante cose che nemmeno se le ricordano più, come quando cammini e cammini e cammini e arriva prima un momento nel quale sei così stanco che ti viene da piangere, e poi arriva un momento nel quale magicamente le gambe vanno leggere come il vento, e alla fine arrivi, ti fermi e prendi fiato e ti guardi e tutto ciò che vedi sono polvere e lividi e graffi. Sullo schermo si apre la finestra di una mail che arriva, tra un quarto d’ora chi c’è per un aperitivo, i colleghi mi aspettano, sì, allora ci sentiamo, certo, dai che ti manca poco, sì sì va bene me l’hai detto prima, cosa c’è, niente, ma come niente, niente, capito, davvero, stai bene, anche tu, ragazzi ricordatevi di mettere un po’ in ordine le scrivanie.
06/08/2013
Il fatto è che dopo tanti anni non ho ancora imparato a parlare al telefono. In realtà non è vero, sapevo farlo bene, per un anno mi ci sono guadagnato da vivere facendo sollecito crediti, signora lei è indietro di tre rate. Forse a fare quel lavoro per tredici mesi sette ore al giorno cinque giorni su sette o quasi mi è venuta la nausea, chissà. Comunque, la gente che lo sa fare, la riconosci, la vedi, la senti subito: è una questione di ritmo, di tono, di sicurezza. Le cose da dire sono il meno, quello che conta è il come, è il padroneggiare lo strumento, dominarlo, farlo diventare una cosa propria. Io invece sto lì, parla più forte che non ti sento, e mi perdo a pensare che faccia sta facendo la persona dall’altra parte, e intanto cammino, giro in tondo, guardo fuori dalla finestra, e nove volte su dieci prima di tornare alla scrivania dico va bene, adesso ti mando una mail, così capisci bene.
[Oggi ho fatto quattro conference call. Centocinquanta minuti. E’ stata una giornata difficile, insomma]
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