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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    26/01/2014

    M.

    Filed under: — JE6 @ 19:22

    Mi chiamo M. Sono nato molto tempo fa, prima della maggior parte delle persone che conosco, in un piccolo paese del Goceano. Forse dovrei dire in Sardegna, perché è lì che sta il Goceano. Ma tutti pensano alla Sardegna come al posto delle spiagge e del mare e invece io sono nato in collina, in un posto pieno di boschi e querce millenarie, dove d’inverno nevica.
    Vivevamo di due cose: pastorizia e agricoltura. Nelle grandi tancas di proprietà delle quattro-cinque famiglie ricche del paese stavano le pecore e le vacche, e molti lavoravano come servi pastori. Poi c’erano i campi, sei-sette chilometri più in basso: grano, orzo, olive, mandorle. Gli appezzamenti grandi dati a mezzadria, il resto erano fazzoletti di terra di proprietà delle famiglie che li coltivavano per il proprio sostentamento. Tutti avevano un orto e un vigneto, magari microscopico, e un maiale da uccidere. Non eravamo poveri, non abbiamo mai fatto la fame anche durante la guerra con i tedeschi accampati all’ingresso del paese; avevamo giusto quel che ci serviva per vivere, ma non avevamo i soldi, il contante. Potevi cenare, ma non sapevi come comprarti un vestito se non lo barattavi con qualche litro d’olio o un sacco di mandorle secche. Studiavamo, le elementari le facevamo tutti: ma le scuole medie erano lontane, in altri paesi difficili da raggiungere, così ci siamo fermati quasi tutti alla quinta. I pochi che sono andati avanti erano maschi, si diceva che alle femmine l’istruzione non serviva per fare figli e mandare avanti la casa.
    Eravamo in otto in famiglia. Papà e il primo dei miei fratelli lavoravano come magazzinieri nei cantieri stradali, partivano, stavano via una settimana, tornavano per qualche giorno e poi ripartivano. Mamma lavorava la terra, io e l’altro mio fratello curavamo le due sorelline, e cercavamo di dare una mano. Ho fatto per due anni l’aiuto-muratore: mi piaceva, se avessi potuto ne avrei fatto un mestiere, il mio mestiere: ma mettersi in proprio era quasi impossibile. Ho fatto anche il servo pastore, lo facevano tutti. Una notte rimasi da solo, sentii il rumore di un branco di animali rubati che risaliva la mulattiera che costeggiava l’ovile. Il paese era lontano chilometri, il buio era buio per davvero, così corsi a nascondermi dentro una grotta e ne uscii solo la mattina dopo. Sembra una favola ma è la verità. Non avevo ancora quattordici anni.
    Io volevo fare qualcosa di mio. Volevo essere indipendente, costruirmi qualcosa, e lì non potevo. Così, forse perché uno dei miei due fratelli maggiori era andato in polizia tre anni prima, forse perché in paese i carabinieri li conoscevano e li rispettavano tutti provai ad arruolarmi. Mi presero, passai cinque giorni a Cagliari e poi salii su una nave simile a un galeone di Cristoforo Colombo, ventiquattro ore seduti su una panca di legno in uno stanzone vuoto per arrivare a Civitavecchia, e da lì a Barletta per la scuola allievi, e poi sette anni tra Gorizia e Trieste, che ricordo come quelli più belli della mia vita anche se a quei tempi da quelle parti avere una divisa poteva essere pericoloso, eri nuovo dei posti, Gorizia era divisa in due come Berlino, bastava confondersi e andare a destra invece che a sinistra perché le guardie del popolo dell’esercito jugoslavo che presidiavano il confine ti sparassero addosso: morire perché sei andato a fare pipì dalla parte sbagliata, poteva succedere anche quello.
    Ero bravo con i motori. Io mica avevo fatto la scuola guida: figurati, a Illorai provincia di Sassari. Tutto completamente da autodidatta, ma sapevo guidare qualsiasi cosa, imparavo appena ci salivo sopra; ed ero così bravo che mi facevano fare l’istruttore: a me, che ero ancora in attesa di ricevere ufficialmente la patente. Fu così che salii sulla moto, erano i primissimi anni Cinquanta, e ne scesi solo vent’anni dopo. Per la maggior parte di quei vent’anni ho fatto scorte: spesso erano scorte d’onore, sulla Guzzi 500, con l’uniforme bella: cardinali che sarebbero diventati papi, ministri, generali, comandanti della NATO. Le gare di regolarità, in Italia e all’estero. A volte erano semplici scorte di servizio, in testa o in coda alle autocolonne, ma pure quelle non erano uno scherzo. Un giorno, era il mese di febbraio del 1959 o del 1960, ora non ricordo, ero comandato assieme ad altri 4 colleghi per scortare un’autocolonna di circa 60 automezzi militari tra cui una ventina di carri armati  M47 dalla caserma Perrucchetti di Milano fino a Lonate Pozzolo. A Castano Primo un mezzo andò in avaria; io ero il caposcorta, così tornai indietro per verificare ed avvisare il comandante della colonna. C’era una nebbia spaventosa, e almeno 10-12 gradi sotto zero. Tornando in testa alla colonna mi ritrovai trasformato in un pezzo di ghiaccio: e dico davvero, non sto scherzando. Non ero più in grado di fermare la moto, andavo avanti solo per forza d’inerzia. Un collega, resosi conto di quanto stava accadendo, si mise a corrermi dietro gridando ad altri militari “fermatelo, fermatelo”; quando vi riuscirono e mi tirarono giù dalla moto ero completamente congelato: non riuscivo a muovere un dito, gli occhi spalancati non mi si chiudevano più, insomma non muovevo più un muscolo. Mi praticarono dei massaggi per riattivare la circolazione e poi mi misero sopra un motore di un carro armato finché non mi ripresi completamente. Poi tornai in sella, e ripresi il mio lavoro.
    Nel 1958 mi trasferirono a Milano, e da allora non sono più andato via. Stavo al Terzo Battaglione, nella caserma di via Lamarmora, e intanto aspettavo di sposare la ragazza con la quale ero fidanzato da così tanto tempo che non me lo ricordavo nemmeno più: ma a quel tempo i carabinieri non si potevano sposare prima dei trent’anni, ci voleva tanta pazienza.
    Iniziai a fare il servizio di ordine pubblico nei primi anni Sessanta. Credo che fosse alla Brown Boveri di Piazzale Lodi. L’ho fatto per parecchi anni, una decina più o meno. Scioperi, manifestazioni, occupazioni, presidi. Uscivo di casa presto, andavo in caserma e mi preparavo: casco, tuta mimetica, anfibi, il fucile, la pistola e lo zainetto con i lacrimogeni. Salivamo sui camion, gli ACL, e partivamo. Dovevamo essere sul posto prima che arrivassero tutti gli altri, e dovevamo aspettare che se ne andassero tutti per poter tornare in caserma. A volte restavamo sette-otto ore sul cassone del camion, ma quasi sempre eravamo in strada, magari davanti ai cancelli delle fabbriche: la Farmitalia di viale Bezzi, l’Alfa del Portello. Non c’erano i cellulari, noi eravamo lì e le nostre mogli potevano solo sperare che non ci capitasse niente di brutto, aspettando di vederci rientrare a casa la sera. Sono stato fortunato, non mi sono mai trovato in mezzo a disordini veramente gravi tenendo conto di com’erano quegli anni: uccidevano le persone, scoppiavano le bombe nelle banche e nei treni, c’erano giorni che sembrava di stare in guerra e noi eravamo vestiti proprio per quello, per la guerra urbana: quando ci fu la sommossa del carcere di San Vittore, credo che fosse il 1969, ecco quello fu un macello, mille detenuti in rivolta che misero a ferro e fuoco la prigione, e tutto intorno le manifestazioni di sostegno, una settimana d’inferno e noi che pattugliavamo viale Papiniano con le autoblindo. Io ne pilotavo una. E’ difficile immaginarlo oggi, un mezzo blindato con il cannone che gira in piazzale Aquileia. Eppure successe. Devo dire che ci è andata bene. Ora che ci penso mi pare che avessero più paura le nostre famiglie a casa, mentre noi eravamo tranquilli. Non ho mai avuto veramente paura, se non quella volta di San Vittore, e qualche anno dopo quando è scoppiato l’impianto dell’Icmesa a Seveso e noi passavamo il nostro tempo a pattugliare la zona per impedire che le persone rientrassero in casa o si avvicinassero troppo alle zone più contaminate dalla diossina: lì sì, lì ho avuto paura, non di morire, ma di ammalarmi.
    Ho visto molte cose brutte facendo quel lavoro. Forse la più brutta è stata quella della Farmitalia. Noi eravamo lì e gli organizzatori della manifestazione decisero di mandarci contro le donne. Non so perché lo fecero, so solo che queste ci vennero incontro e ci gridarono di tutto, qualsiasi insulto possibile, pieno di disprezzo, come se fossimo degli animali, dei criminali, non lo so. Carne venduta, ci dicevano. Io sono una persona pacifica, ma quel giorno i miei commilitoni mi dovettero tenere per impedirmi di uscire dai nostri ranghi e spaccare il calcio del moschetto in testa a qualcuna di quelle donne. Non è una bella cosa, lo so. Ma erano anni nei quali sui giornali leggevi i nomi di carabinieri come te che morivano solo perché facevano il loro lavoro, e quelli per noi non erano solo dei colleghi. Erano dei fratelli. Non è facile da spiegare cosa si prova per qualcuno che porta la tua stessa divisa, il legame che si crea anche se non ci si conosce. Ed è il motivo per cui sto male quando sento di qualche carabiniere che si comporta male, perché sta disonorando anche me. Io sono sempre stato orgoglioso di quello che ho fatto, all’Arma devo tutto, la possibilità di farmi una famiglia, di vedere le cose, di girare uscendo dai confini dell’Italia, il primo di tutta la mia famiglia, prima ancora che mio fratello emigrasse e che mio figlio si mettesse a girare il mondo per lavoro.
    Tre anni fa la mia famiglia mi ha fatto un regalo. Mi ha messo su una macchina e mi ha riportato a Trieste. Non ci ero più tornato dal 1958. Ci siamo arrivati da Opicina. A un certo punto la strada fa una curva, e per un centinaio di metri gli alberi si aprono e sotto vedi il golfo e il porto e piazza Unità d’Italia. Mi si sono inumiditi gli occhi, ho mormorato “la mia Trieste” e ho ricordato il 26 ottobre del 1954, perché io c’ero, ero lì a fare la scorta d’onore al nostro comandante nel giorno in cui Trieste ritornò a far parte dell’Italia, ho ricordato le centinaia di migliaia di persone che stavano ai lati della strada salutandoci, piangendo per la gioia, ho ricordato l’orgoglio e la felicità di essere lì, in quel momento, con quella gente. La commozione, la stessa che sento adesso, sessant’anni dopo, perché una volta che diventi carabiniere lo rimani per tutta la vita.