Squadra Rialzo Milano Centrale
Tu che puoi, che stai lì, facci un salto – dice un amico che ha pure lui questa passione, quella dei treni e delle stazioni e del mondo che gli gira intorno, e gli viaggia sopra e dentro. E io che posso, che sto lì, ci faccio un salto alla vecchia Officina Veicoli di Milano Centrale, dove si metteva mano a tutto ciò che faceva un treno, i freni, i sedili, le tappezzerie, i lavandini, le viti, i tergicristalli, tutto. Amo i treni da quando salivo con mia mamma sul diesel che attraversava la Sardegna andando da Porto Torres verso Cagliari, e mi facevo venire un mal di testa da ubriaco assecondando gli scossoni della littorina che da Nuoro andava a Macomer; e poi c’è stata l’estate più bella della mia vita, quella dell’InterRail. Amo l’odore della ferrovia, che è fatto di cose alle quali non so dare nome, e amo i finestrini grandi che mi fanno guardare fuori, e amo il ferro e l’elettricità e i suoni e il microcosmo che si crea in un vagone. Quando sono uscito e ho rimesso piede sul marciapiede di viale Monza mi è tornato in mente un piccolo pezzo che mandai al defunto “Diario della settimana”, pubblicato all’inizio del 1999 in uno speciale dedicato alle stazioni ferroviarie. Sono andato a cercarlo, e lo metto qui mentre penso a un viaggio che prima o poi farò, zaino in spalla e jeans, a cercare il ragazzo che dormiva sull’asfalto del piazzale della stazione di Copenhagen.
Andavamo alla stazione di Malles Venosta durante alcune domeniche di libera uscita, quando non avevamo né tempo né soldi per tornare a Milano. Funzionava solo un paio di mesi all’anno; per il resto, passava la sua vita nella totale inattività, aspettando i treni dell’anno successivo e accogliendo gente che, come noi, amava i luoghi desolati e abbandonati. Era tutto come nei film: porte che sbattevano, finestre rotte, sterpaglia tra i binari, e tutto intorno una sensazione di morte sonnolenta. Noi entravamo, ci sedevamo sotto il porticato, e dimenticavamo il rumore dei sergenti maggiori, degli alzabandiera e dei carri armati. Leggevamo lo scarno orario delle partenze e degli arrivi, tiravamo qualche sasso, disegnavamo la faccia del telegrafista e del capostazione. Era bello. Almeno per noi. Ci tornammo alla vigilia del congedo; su un foglio a quadretti, una mano teutonica avvisava che l’indomani due treni avrebbero ripreso a funzionare. C’era chi arrivava, c’era chi partiva. Noi, quei treni, li avremmo solo immaginati.