Progresso
C’è una cosa che mi capita spesso di pensare alla fine di certi libri – “La guerra del Peloponneso” di Tucidide, “Furore” di Steinbeck, cose così: mi capita di pensare che li leggiamo e la prima reazione che abbiamo è “guarda che modernità, sembra scritto adesso, questi ateniesi sembrano gli americani e questi Joad sembrano i migranti siriani”; ma il fatto è che non sono loro – Tucidide, Steinbeck, i loro libri – a essere moderni, siamo noi a essere rimasti fermi. Se dopo un secolo o due millenni e mezzo parliamo e pensiamo e agiamo ancora come quei contadini dell’Oklahoma (e i bravi cittadini californiani che gli danno fuoco alle baracche) o come quegli ambasciatori ateniesi nell’isola di Melo, siamo noi a essere “vecchi”. E la nostra idea di progresso, di una linea non necessariamente retta ma comunque continua che ci porta da A a B dove B è un posto migliore, che sta più in alto, dal quale si gode di una vista più bella. E invece spesso no, spesso siamo tali e quali ai nostri trisnonni, nel nostro nocciolo siamo come loro, passati dalla penna d’oca allo smartphone con scrittura vocale, gli inconsapevoli protagonisti di uno sfinente e gigantesco giorno della marmotta.