Nessuno
E’ agosto, e stiamo tornando da Chernobyl. Guardo fuori dal finestrino. Sono sfinito, e al tempo stesso vorrei tornare indietro, subito, a vedere ciò che non abbiamo visto e rivedere tutto il resto. Mentre fuori passano girasoli e case col tetto di paglia e autobus precari cerco di capire quello che ho visto e cosa mi ha lasciato dentro, ma so che non è questo il momento, è troppo presto, è troppo vicino, mi devo fidare della formidabile capacità della memoria di distillare ciò che veramente conta: come diceva Marquéz, la vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda; poi lui aggiungeva: e come la si ricorda, per raccontarla; ma questa è un’altra storia. Mi volto verso Ermanno, con il quale ho condiviso per due giorni la camera di Chernobyl e questa ultima fila dello Sprinter, e lo vedo perso nel torpore della stanchezza e della batteria del telefono ormai scarica. Allora chiudo gli occhi anch’io ed è in quel momento che ritorna a galla una scena che, anche se non lo so ancora, mi accompagnerà per un sacco di tempo. Ci siamo tutti e nove, messi a semicerchio davanti a Igor, dentro la torre di raffreddamento. Qualcuno gli ha chiesto quale sarà il destino, cosa ne faranno di questo posto che ha la stessa indefinibile maestosità di una cattedrale medievale e la stessa mancanza di futuro di un giocattolo rotto, e per una frazione di secondo, prima di rispondere, abbiamo potuto vedere che gli è passata sul volto l’espressione di quello che si chiede se sei veramente così cretino da aver fatto sul serio quella domanda. Ma è stato un lampo, un soffio: poi Igor ha risposto con una sola parola, ha detto “nulla”. Come nulla, Igor, cosa vuol dire nulla? Vuol dire, ci spiega tranquillo e serio e rassegnato, che non possiamo fare nulla, perché l’Ucraina ha le casse vuote ed è in guerra anche se non dichiarata e si tiene a galla solo con i fondi che arrivano in qualche modo dall’estero e insomma non abbiamo né soldi né persone né tecnologie, e anche se li avessimo guardatevi intorno, vedete quanto è grosso questo posto, sapete che qui siamo a due soli chilometri dalla Centrale e se facessimo implodere tutto quanto produrremmo un microterremoto che farebbe venir giù ancora la Centrale con tutto il suo arco splendente, pensate che sia possibile? Allora ha parlato uno per tutti, gli ha detto con un misto di incredulità e timore scusa Igor, ma non potrà rimanere tutto così per sempre, abbiamo visto i palazzi di Pryp’jat’ che vengono giù da soli, succederà la stessa cosa anche qui, cosa farete?
Igor ha fatto passare lo sguardo oltre la barriera dei nostri corpi guardando verso l’esterno della torre di raffreddamento, dove c’è il sentiero che attraversa il sottobosco fino ai binari che portano al ponte sopra il canale dove nuotano i pesci gatto, dove c’è lo Sprinter parcheggiato con il muso in direzione di Kiev, bastava seguire i suoi occhi per vedere la strada verso casa srotolarsi come il filo che si deve usare per non perdersi nei labirinti, ha messo le mani nella tasca dei pantaloni della tuta e si è incamminato facendoci capire che era l’ora di andare, che dovevamo seguirlo, e ha detto “Non lo so. Non lo sa nessuno, cosa faremo”.
(Non so se capita anche a voi di avere delle immagini che vi si stampano dentro, sul momento non ci fate tanto caso ma poi, mesi dopo, vengono fuori e poi lo fanno ancora, e ancora, quando avete la testa da un’altra parte e loro arrivano senza avviso né richiesta e non vi resta che accoglierle.)